VENEZIA – Due film in concorso a Venezia 80, curiosamente, parlano di multiverso e intelligenza artificiale (oggi sul tema, al Lido, anche un convegno alle Giornate degli Autori) ma anche di viaggi nel tempo e di vite passate.
Il primo è La bête (La bestia), del prolifico autore francese Bertrand Bonello – abbiamo appena visto in sala lo sperimentale Coma. Con Léa Seydoux – assente dal Lido per sostenere lo sciopero degli attori e degli sceneggiatori americani – e il britannico George MacKay (1917), ecco una storia romantica molto liberamente ispirata al racconto La bestia nella giungla di Henry James, ma aggiornata alla sensibilità e alle paure contemporanee.
In un futuro prossimo (siamo nel 2044) in cui domina l’intelligenza artificiale e le emozioni sono considerate nocive, Gabrielle deve purificare il suo subconscio mettendo ordine in tutte le sue vite passate. In ognuna di esse ritrova Louis, grande amore mai consumato per reciproche paure. Ma Gabrielle vive anche da sempre il presentimento di una catastrofe imminente, rappresentata da un piccione che si introduce nella sua casa, simbolo considerato nefasto anche da una veggente che ritrova da un’epoca all’altra.
Tra computer e videocamere di sorveglianza (una classica ossessione di Bonello), ma anche immagini della Parigi alluvionata nel 1910, tra l’Europa e gli States, Louis cambia pelle, e diventa da rispettoso e gentile corteggiatore, killer psicopatico. “Per prima cosa – spiega Bonello – volevo ritrarre una donna e occuparmi di amore e di melodramma. Inserire questo nel cinema di genere, mescolare l’intimo e lo spettacolare, il classicismo e la modernità, il noto e l’ignoto, il visibile e l’invisibile. Parlare, forse, del più straziante dei sentimenti, la paura dell’amore. Il film è anche il ritratto di una donna, che diventa quasi un documentario su Léa Seydoux”. E prosegue: “Quello immaginato per il 2044 è un mondo senza internet, smartphone, social media, un mondo dove non ci sono i colori. L’intelligenza artificiale è minaccia, se pensiamo ad esempio ad un utilizzo in politica, ma anche opportunità se viene applicata alla ricerca medica. Io sono ottimista, servirà tanto ma a patto che la si usi con cautela”.
Accanto a Lea Seydoux avrebbe dovuto esserci Gaspard Ulliel, morto per un incidente sugli sci a 37 anni nel gennaio 2022 mentre il film si preparava, un dolore per la Francia intera. “Abbiamo deciso di andare avanti ma che nessun attore francese poteva prendere il suo posto, così ho scelto McKay e dedicato il film a Gaspard”. La bête arriverà in sala con I Wonder.
L’altro film del concorso che ci porta sulla macchina del tempo è La teoria del tutto del tedesco Timm Kröger, già autore di The Council of Birds (alla Settimana della Critica nel 2014) e The Trouble with Being Born (2020). Nonostante il titolo rimandi alla cinebiografia di Stephen Hawking firmata da James Marsh, qui la fantascienza prende il posto della scienza. Il protagonista Johannes Leinert si muove tra le epoche – e forse tra la vita e la morte – cercando di far accettare il suo modello alla comunità scientifica, che invece lo respinge, emarginandolo. Nel 1962 partecipa a un convegno di fisica sulle Alpi svizzere, nel 1974 presenta il suo romanzo autobiografico in cui ripercorre quegli eventi. Il convegno non si terrà mai, uno scienziato sparirà nel nulla per poi essere trovato morto, ci saranno esplosioni nucleari sotterranee e valanghe e persino un’epidemia di scabbia, mentre ciò che sembra non è e ciò che è si nasconde alla vista. Non manca il lato romantico perché Johannes è affascinato da Karin, giovane pianista jazz, che ha qualcosa di sfuggente e di cui resterà per sempre innamorato.
In un bianco e nero sontuoso e cupo, che esalta le immagini della montagna, La teoria del tutto cerca più che può di spiazzare lo spettatore lasciando che si smarrisca nel multiverso con tante citazioni cinefile, tra cui lo sci/fi di serie B italiano. “Sono stato attratto da un’indistinta immagine-ricordo collegata al cinema, un amalgama strano e divertente – come se Hitchcock e Lynch e molti altri, conosciuti o dimenticati, facessero l’amore sulla moquette della hall di un vecchio hotel – in cui risuona una utility music come quella di Bernard Herrmann, suscitando allo stesso tempo drammatica ironia e un’emozione genuina e sincera”, afferma il regista. E prosegue: “È la tragica storia di un genio incompreso, o stiamo assistendo alle allucinazioni paranoidi di un pazzo con turbe ossessive? Il film è invariabilmente entrambe le cose. Qui, il gatto di Schrödinger è allo stesso tempo vivo e vegeto, e clinicamente morto. La storia sembra profondamente radicata nel XX secolo – questo lungo, strano secolo che non è riuscito a superare il vecchio concetto del genio individuale ‘guidato dal destino’. Il suo opposto – abitare un universo caotico e indifferente – rimane ancora oggi insopportabile. Quale dei due è più giusto? La cosa che più assomigli a una risposta, secondo me, può essere trovata nel multiverso del cinema – e nella sua continua capacità di combinare i nostri sogni collettivi con le trappole della realtà, ‘mescolare le vecchie carte in modi nuovi’. Proprio come Johannes, anche noi non sappiamo chi ha scritto la strana musica che proviene dalla hall, ma di sicuro ne riconosciamo la melodia”. E, a proposito di XX secolo, non mancano le allusioni alla Guerra Fredda e alla Germania divisa.
di Cristiana Paternò
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