CANNES – Con The Phoenician Scheme – film in Concorso – Wes Anderson continua a scavare nella materia narrativa come un miniaturista barocco dell’immaginario, ma lo fa orientando il proprio sguardo verso territori meno eccentrici e più opacamente inquietanti.
Il film, su soggetto dello stesso Anderson con Roman Coppola, a un primo livello si presenta come un sofisticato gioco di spionaggio dal sapore retrò, ma poi si rivela essere un’allegoria sulle logiche del potere, sulla circolarità del tradimento. Il titolo stesso suggerisce una dimensione archetipica del complotto: non un fatto, ma un modello ricorrente della storia.
Anderson, pur mantenendo la sua cifra inconfondibile — simmetria rigorosa, palette cromatiche controllatissime, recitazione sottotono e coreografie millimetriche — oltre che il gusto per la coralità interpretativa, qui affidata principalmente a Benicio del Toro (Zsa-Zsa Korda) con Mia Threapleton (Liesl), Scarlett Johansson, Benedict Cumberbatch, Bill Murray, Tom Hanks – sembra smarcarsi dalla gabbia autoriale in cui molti lo avevano rinchiuso. The Phoenician Scheme gioca sul sospetto, ma anche sull’impossibilità di distinguere tra verità e messinscena, tra fedeltà e manipolazione. I personaggi si muovono come pedine consapevoli del proprio ruolo, intrappolati in uno schema che richiama non tanto il thriller politico quanto la tragedia greca, dove la colpa è scritta prima ancora dell’azione.
Zsa-Zsa è un magnate europeo degli armamenti e dell’aviazione, clamorosamente sopravvissuto alla morte per incidente aereo, che l’ha sfiorato addirittura per sei volte; è il momento di cercare di riavvicinarsi a Liesl, la figlia, nel frattempo suora novizia che fuma la pipa, “nominata unica erede” del patrimonio paterno. E Anderson, rispetto all’idea, spiega che ci sia stato un innesco famigliare: “Io ho una figlia, Roman ha una figlia, Benicio ha una figlia e il modo in cui stabilisce quella relazione, secondo me, è entrata nel film per la prima volta perché probabilmente me lo stava raccontando mia moglie: lei è libanese, suo padre era un ingegnere, un uomo d’affari libanese; anni fa, lei era andata a un incontro, e quando tornò mi disse: ‘Mi ha detto: voglio che tu sia pronta, se non sarò in grado di gestire i miei affari, le mie relazioni. Voglio che tu sappia cosa succede se non riesco a occuparmi di tutto’. E aprì un armadio e cominciò a tirar fuori delle scatole da scarpe – proprio come quelle che appaiono nel film – e a descrivere questi diversi progetti, progetti ingegneristici in varie parti del mondo. E la sua reazione, alla fine, fu: ‘È una follia’. Da lì è cominciato tutto. Il personaggio ha finito per avere molto a che fare con lui, e il film è dedicato a lui, perché era semplicemente indimenticabile, speciale, una persona straordinaria”.
Wes Anderson firma un film profondamente metacinematografico, così ogni inquadratura diventa una cornice di senso, e ogni gesto, anche il più anonimo, può celare una strategia o una rovina. La struttura narrativa, volutamente ellittica e ricorsiva, sfida lo spettatore a mettere in discussione il proprio sguardo: chi osserva è sempre già osservato, chi interpreta è sempre già parte del gioco, o meglio “dello schema”.
Il senso essenziale del film non risiede dunque nella risoluzione dell’enigma, ma nella sua perpetuazione: The Phoenician Scheme non racconta una storia di spie, ma la necessità di fabbricarne una.
Il film esce al cinema dal 28/5 con Universal Pictures.
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