Verhoeven: “Oltre il mito della Resistenza”


Preceduto dalla fama di essere un film revisionista, arriva nelle sale italiane, dopo il concorso di Venezia, Black book, un progetto tutto europeo da 17 mln € che ha riportato Paul Verhoeven (Basic instinct, Starship Troopers) in patria. Abituato alle megaproduzioni di Hollywood, si è sentito finalmente a casa con un cast di attori olandesi e tedeschi, tra cui la seducente protagonista Carice Van Houten. Sicuramente avvincente come thriller, Black book è tuttavia basato sulla storia dell’Olanda occupata dai nazisti nel 1944- 45 e non può lasciare indifferenti vedere partigiani doppiogiochisti, altri addirittura coinvolti nel furto dell’oro degli ebrei, collaborazionisti umiliati e torturati, persino immersi negli escrementi  all’indomani della liberazione. E viceversa nazisti animati da un senso di giustizia, nazisti dal volto umano insomma di cui innamorarsi come ci si innamora dell’eroe positivo. Qualcuno si scandalizzerà, qualcun altro cavalcherà volentieri l’onda. A tutti Verhoeven, che non è entrato nella cinquina dell’Oscar ma non se ne lamenta, risponde nel suo inglese dal forte accento fiammingo: “Le circostanze e i fatti che racconto sono frutto di approfondite ricerche storiche, alla sceneggiatura di questo film ho lavorato per vent’anni insieme a Gerard Soeteman proprio cercando una verità che vada oltre il mito del partigiano buono”.

Ma naturalmente la storia della bella ebrea Rachel, che entra nella Resistenza e quindi diventa una specie di Mata Hari per vendicare la sua famiglia, sterminata sulla via della fuga, riaccenderà un dibattito anche italiano dal 2 febbraio, da quando cioè il film sarà nelle nostre sale, con DNC, in ottanta copie. Il quasi settantenne Verhoeven, tuttavia, sembra sincero quando respinge al mittente gli argomenti politici e vira sull’eterno homo homini lupus. La crudeltà, l’avidità, il tradimento sembrano costanti dell’animo umano, da una parte e dall’altra della barricata. “La violenza fa parte della nostra natura, siamo scimmie violente e l’universo stesso è una forma cataclismica di violenza. Ma il vero problema – aggiunge – è guardare al nemico come a un demonio. Una prospettiva da cui non si esce, che non può risolvere nulla e che ritroviamo, ad esempio, nello scontro tra gli Usa e l’Irak. Piuttosto bisognerebbe, come insegnava Gesù, amare il proprio nemico”. Proprio su Gesù (uno dei suoi eroi insieme, chissà perché, a Igor Stravinskij) sta ora concentrando le sue notevoli energie. “A settembre sarà sugli scaffali il mio libro su Cristo, un libro dove rimetto in discussione molte convinzioni del cristianesimo: vedrete, sarà provocatorio e sicuramente verrà tradotto in italiano per la gioia del Vaticano”. Contemporaneamente sta per iniziare le riprese di un nuovo film, The Winter Queen, una vicenda di spionaggio ambientata nella Russia del 1876 e tratta da un romanzo di Boris Akunin che fa parte del ciclo di Fandorin, una sorta di Montalbano moscovita che ha venduto milioni di copie ed è tradotto in venti lingue. Anche qui c’è qualche aggancio con l’attualità. “Il terrorismo – spiega Verhoeven – è stato inventato proprio in Russia nell’Ottocento, quando per definire chi tentava di assassinare lo zar si prese a prestito il Terrore dalla rivoluzione francese. Oggi di terrorismo si torna a parlare nel conflitto iracheno; ma ancora ieri i tedeschi definivano terroristi i combattenti della Resistenza e per i Romani era Gesù il terrorista”. Così l’ambiguità si infittisce… 

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30 Gennaio 2007

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