VERDETTO DEBOLE


A qualcuno parrà strano che l’anno scorso una giuria presieduta da David Lynch, l’autore di Strade perdute e Mulholland Drive, avesse reso omaggio al cinema classico, offrendo la Palma d’Oro a un film quale Il pianista, che più classico non si può, mentre quest’anno una giuria presieduta da Patrice Chéreau, grande regista teatrale e anche cinematografico, ma di certo meno bizzarro e imprevedibile di Lynch, abbia premiato il più puro “cinema da festival”, lasciando a bocca asciutta il pur magnifico Clint Eastwood, l’intera squadra francese, il nostro Avati, cioè tutti coloro che si muovevano rispettando il linguaggio tradizionale, facendo eccezione solo per il canadese Denys Arcand, regista de Les invasions barbares, salito 2 volte sul podio, per raccogliere il premio destinato alla Migliore sceneggiatura e quello alla Migliore attrice.
Altro fatto rilevante: nel festival che si voleva antiamericano, ha trionfato il cinema americano con Elephant di Gus Van Sant, Palma d’Oro e Premio per la migliore regia, mentre l’opinione comune dava per vincitore Lars Von Trier. Dogville risultava il più votato, sia dalla stampa francese che da quella internazionale; ma il referendum della critica, così come le ovazioni del pubblico, non rappresentano una garanzia assoluta. A decidere, resta sempre la giuria. L’abbiamo visto tante volte, a Cannes come altrove. Si ricorderà la Palma andata a Rosetta dei fratelli Dardenne, mentre la generalità dei presenti puntava su Almodovar con Tutto sua mia madre.
D’altra parte, dire trionfo del cinema americano può apparire vago, poiché di cinema americani ce ne sono parecchi: dentro, nelle vicinanze e del tutto fuori da Hollywood. Elephant, prodotto da una società televisiva, la HBO, si situa in quest’ultima categoria e Gus Van Sant è un regista che riesce a fare una volta l’alternativo, l’altra l’integrato. Come Soderbergh, che sedeva in giuria, e c’è da scommettere che si sarà battuto per fargli assegnare i due premi.
Sconfitto rimane il cinema europeo, a meno di non considerare europeo il film turco Uzak, l’altro trionfatore del festival. Sconfitta soprattutto la Francia che, nonostante la massiccia rappresentanza, non è riuscita a raccattare un premio di consolazione.
Grande delusione anche per Il cuore altrove di Pupi Avati, che resta il film più applaudito del festival e anche tra i più richiesti dai compratori stranieri: dieci minuti di standing ovation e distribuzione assicurata in mezzo mondo. Qualcosa di simile è capitato a Berlino al film di Salvatores, ignorato dalla giuria ma amatissimo dal pubblico e dai compratori.
Cannes 2003, insomma, non è stato un festival all’altezza dei 2 precedenti, ma ha tenuto fede alla definizione datagli dal direttore Frémaux: un festival di transizione. In fondo, la transizione è il minimo denominatore comune dell’inizio del Terzo Millennio.

autore
25 Maggio 2003

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