VENEZIA – Ci sarà un flash mob a favore dei cineasti iraniani arrestati prima della proiezione ufficiale del film Gli orsi non esistono (No Bears) di Jafar Panahi, il 9 settembre alle 16.30. L’iniziativa vuole rappresentare una protesta per l’arresto del regista iraniano e manifestare solidarietà a tutti i registi e gli artisti perseguitati in tutto il mondo. Al flash mob, organizzato in collaborazione con l’ICFR, l’International Coalition for Filmakers at Risk, parteciperanno registi, artisti e tutta la comunità del cinema presente al Festival.
L’attenzione al cinema iraniano, anche dal punto di vista politico, è grande. Oltre a Panahi, in concorso c’è Vahid Jalilvand, con Oltre il muro, un’opera che mette in scena la cieca violenza della polizia nel reprimere una protesta di operai davanti alla fabbrica, ma anche l’animo gentile di uno dei poliziotti che aiuta una donna disperata. Un film labirintico dove diversi piani di realtà, immaginazione e sogno si intersecano continuamente senza lasciar respiro allo spettatore come non hanno respiro i personaggi, braccati e controllati, anche con una videocamera a circuito chiuso.
Interpretato da Navid Mohammadzadeh e Diana Habibi, Oltre il muro è incentrato sulla figura di Ali, un uomo quasi cieco, che nella prima scena, molto violenta, cerca di togliersi la vita soffocandosi con un sacchetto di plastica. Il tentativo fallisce perché alla porta bussano furiosamente. E’ il custode del palazzo, lo informa che la polizia sta cercando una fuggitiva che sembra essersi nascosta nell’edificio. Alì non vede che ombre, quindi non si rende conto subito che Leila si trova proprio nel suo appartamento. E’ ferita, lacera e piange perché nella manifestazione ha smarrito il figlioletto di quattro anni e non sa che fine abbia fatto. Era stata arrestata dalla polizia durante i tafferugli ed è riuscita a fuggire dal furgone che la stava portando al commissariato travolto da un incidente stradale.
“L’anello mancante del mondo moderno è l’amore e per trovarlo abbiamo bisogno di sacrificio e dignità”, spiega il regista. “In tutto il mondo ogni giorno tutto congiura per farci perdere la speranza. Se l’umanità non si allea per mantenere viva questa speranza nel proprio cuore e nella propria mente, sarà perduta. E in questo film l’andare avanti e indietro tra la realtà e la fantasia è proprio la battaglia per mantenere viva la speranza”, aggiunge.
Nell’estate del 2021 il regista ha mandato un messaggio alle forze di sicurezza iraniane affinché deponessero le armi, il film contiene lo stesso messaggio? “Non volevo rispondere a domande politiche – premette Jalilvand – ma risponderò alla sua domanda. La mia dichiarazione era collegata alla mancanza di acqua in Iran ma, come già è stato fatto sui social, lei ha interpretato che io dicessi abbassate le armi. Però nella stessa frase io chiamavo gli ufficiali delle forze di sicurezza ‘fratelli’. E, in questo film, l’eroe è un membro delle forze di sicurezza”.
Quanto alla situazione in Iran, “è una situazione bipolare – aggiunge il regista – dobbiamo arrivare ad un equilibro tra le due parti: questo permetterà il dialogo. Non esiste solo bianco o nero. Con un riavvicinamento ci sarebbe meno violenza. Può dire che questa è la risposta che lo do perché vivo in Iran, lavoro in Iran e non voglio avere lo stesso destino dell’altro regista iraniano in concorso Panahi, che è stato arrestato. Ma io chiamo voi miei fratelli e chiamo fratelli anche gli ufficiali di sicurezza. Questo è quello che credo. E continuerei ad esserne convinto anche se vivessi in Europa o negli Stati Uniti”.
Anche gli interpreti declinano le domande politiche: “Risponderò solo a domande sul cinema”, dice il protagonista Navid Mohammadzadeh a chi gli chiede se è difficile lavorare in Iran in questo momento. E dirotta la risposta sul suo lavoro per questo film: “Questo è un personaggio raro nel cinema iraniano. Sono orgoglioso di far parte di questo progetto. Ho perso 17 kg. È stata un’esperienza che mi ha aiutato anche a vedere chi amavo e chi ho intorno con altri occhi. Ha avuto degli effetti su di me come persona. Quando sono uscito dalla sala dopo aver visto il film finito mi sono messo a piangere. Tutti i sogni che avevo quando ho iniziato a fare questo lavoro si sono realizzati”.
“Il regista – aggiunge l’interprete femminile Diana Habibi – mi ha chiesto di vivere come Leila, di sostentarmi con lavoretti, senza chiedere soldi alla famiglia. Poi ha voluto che trovassi io il bambino che faceva mio figlio nel film. Mia sorella mi ha visto due mesi dopo e quasi non mi riconosceva”.
E' possibile iscriversi per team di nazionalità italiana composti da registi alla loro opera prima o seconda, associati a produttori che abbiano realizzato almeno tre audiovisivi
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