Un amore di corsa: F1 e Cinema

In occasione dell'uscita in sala del nuovo film di Joseph Kosinski, realizzato in collaborazione con la Formula 1, ecco i migliori film da non perdere per sfrecciare sulle monoposto più veloci al mondo


Brad Pitt torna al cinema, di corsa! È infatti al volante, nei panni di Sonny Hayes, ex pilota di Formula 1 che lo troviamo stavolta, richiamato in pista per affiancare una giovane promessa.

Diretto da Joseph Kosinski (quello di Top Gun: Maverick) e prodotto da Jerry Bruckheimer:  F1- IL FILM  unisce spettacolo e autenticità, con riprese effettuate durante veri Gran Premi e la collaborazione della FIA.

Hayes, ormai tassista a New York, viene reclutato dal team Apex Grand per affiancare il talentuoso e arrogante Joshua “Noah” Pearce. L’obiettivo? Vincere almeno una gara, riscattare la squadra e sé stesso. Da Silverstone ad Abu Dhabi, il viaggio è classico ma funziona benissimo, con Pitt che incarna perfettamente il ruolo: un McQueen contemporaneo, magnetico e credibile.

Il cinema ama la velocità

Il rapporto tra la Formula 1 e il grande schermo ha radici profonde, alimentate da una fascinazione reciproca: uno corre, l’altro racconta. E insieme, creano mito. Perché la F1 non è solo sport: è sfida, estetica del rischio, una danza tra precisione e caos. l’ossessione per il rischio che fa del pilota un eroe tragico moderno.

Sin dagli anni ’50, quando le immagini di Juan Manuel Fangio o di Alberto Ascari venivano immortalate in cinegiornali e primi docufilm, registi e sceneggiatori hanno intuito che il rombo dei motori e la tensione di un sorpasso al limite potevano diventare materia narrativa. Le corse automobilistiche, con i loro gesti estremi e il confine sempre labile tra vita e morte, hanno offerto al cinema un linguaggio visivo potente, capace di trasformare l’asfalto in palcoscenico epico. Film e documentari hanno così contribuito a mitizzare piloti e scuderie, tracciando traiettorie che attraversano la gloria, la caduta, la redenzione e, spesso, la tragedia.

Il podio dei migliori

Uno dei primi titoli imprescindibili è Grand Prix (1966) di John Frankenheimer: quattro Oscar, un cast internazionale e un uso pionieristico delle camere montate sulle monoposto. La trama, forse oggi datata, è riscattata dalla spettacolarità delle sequenze di gara, riprese durante veri weekend di Formula 1 e ancora oggi resta un caposaldo visivo, nostalgico per gli appassionati del “circus”.

In tempi più recenti, Rush (2013) di Ron Howard ha riportato in auge la rivalità tra James Hunt e Niki Lauda nella stagione 1976. Grazie alle interpretazioni carismatiche di Chris Hemsworth e Daniel Brühl, il film ha saputo restituire il brivido della competizione, ma anche le ferite, fisiche e morali, lasciate dalla pista.

Il documentario Senna (2010), diretto da Asif Kapadia, ha invece conquistato cuori e premi raccontando la vita dell’indimenticato Ayrton Senna con materiale d’archivio inedito. Più che un film, una celebrazione del mito, culminante con il tragico weekend di Imola del 1994.

Dalle retrovie

Ci sono poi i titoli meno noti, ma altrettanto intensi. Ferrari: un mito immortale (2017) scava negli anni ’50, tra gloria e lutto. Fangio – L’uomo che domava le macchine celebra Juan Manuel Fangio. Cinque titoli mondiali in un’epoca folle. Il dominio dell’uomo che guidava come se la morte non potesse vederlo. Tra le produzioni più intime c’è Williams (2017), che racconta la genesi e le ferite del team fondato da Frank Williams, e McLaren (2017), cronaca affettuosa dell’avventura di Bruce McLaren, dall’infanzia in Nuova Zelanda al successo internazionale.

Anche il cinema d’autore ha toccato la Formula 1, scegliendo talvolta uno sguardo più raccolto, umano, lontano dallo spettacolo e vicino all’uomo. Weekend of a Champion (1972), firmato da Roman Polanski, è un esempio raro e prezioso: più che un documentario, è un affiancamento discreto, quasi un’ombra silenziosa che segue Jackie Stewart durante il weekend del Gran Premio di Monaco. Il film cattura non solo le strategie di gara, ma i gesti quotidiani, le conversazioni private, la concentrazione prima della corsa. Nessuna enfasi, nessun commento esterno: solo il tempo reale di un campione alle prese con la pressione, le attese, i rituali. Un ritratto sorprendentemente intimo, che restituisce la dimensione fragile e disciplinata del pilota, sospesa tra precisione tecnica e solitudine mentale.

Outsider, ce ne sono. Crash and Burn (2016) su Tommy Byrne, talento che non ha sfondato. Perché in F1, talento e successo non sono sinonimi. Uppity (2020) su Willy T. Ribbs, primo afroamericano a testare una F1. La velocità contro il pregiudizio.

Grandi emozioni, piccolo schermo

Il piccolo schermo non è stato da meno. Drive to Survive, la serie Netflix, ha trasformato la Formula 1 in un dramma a episodi, dosando adrenalina e montaggio, retroscena e confessioni in macchina. Non più solo sorpassi e classifiche, ma rivalità, errori, fragilità. I puristi storcono il naso: troppe forzature narrative, troppe licenze poetiche. Ma ha funzionato. Ha creato un nuovo pubblico, più giovane, più trasversale. Ha inventato un linguaggio diverso per raccontare lo sport, meno cronaca e più romanzo. E ha dimostrato che anche lo sport più tecnico e rigoroso può piegarsi alla narrazione senza perdere tensione. Anzi, guadagnandola.

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28 Giugno 2025

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