Dal 13 febbraio arriva nelle sale italiane Tornando a Est, nuovo avvincente road-movie, sequel del fortunato Est – Dittatura Last Minute. Il film, distribuito da Plaion Pictures, segue il successo del capitolo precedente, che fin dalla sua presentazione a Venezia nel 2020 aveva conquistato la critica e attirato l’attenzione internazionale, raccogliendo prestigiosi riconoscimenti sia in Italia che all’estero, oltre a ottimi risultati al botteghino.
Antonio Pisu torna alla regia e alla sceneggiatura, confermando il team vincente: a interpretare i protagonisti ci sono nuovamente Lodo Guenzi, Matteo Gatta e Jacopo Costantini, rispettivamente nei ruoli di Rice, Pago e Bibi. Il cast si arricchisce però di nuovi volti, tra cui Cesare Bocci, Zahcary Baharov e Alexandra Vale. La pellicola è prodotta da Stradedellest Produzioni, con il supporto di Rai Cinema, in collaborazione con Victoria Cinema di Modena e Davide Pedrazzini, e con il sostegno della Emilia Romagna Film Commission.
Anche questo capitolo è liberamente ispirato a fatti realmente accaduti, e combina risate, nostalgia e momenti sorprendenti. Ambientato nel 1991, due anni dopo le vicende narrate nel primo film, racconta un mondo dove il muro di Berlino è caduto, ma le tensioni geopolitiche sono ancora vive. I tre giovani amici di Cesena affrontano una nuova avventura, questa volta in Bulgaria, dove, a causa di una serie di equivoci, vengono scambiati per spie internazionali. Tra imprevisti e pericoli, la loro ingenuità e spensieratezza li trascinano in un viaggio indimenticabile.
Dice Pisu: “Quello che differenzia i due film è la caduta del muro. I tre amici si aspettano che al di là si trovi una situazione del tutto diversa, ma così non stanno le cose. E la delusione che trovano rispecchia le loro vite, la situazione personale e quella europea coincidono. La fuga si fa per cercare sé stessi ma a volte la risposta all’interno di sé stessi è sbagliata”.
Anche se si ambienta in un’altra decade, il tema della precarietà è sempre attuale. Commenta Gatta: “Siamo tutti precari, io a teatro. Non posso fuggire, perché lavoro con la lingua italiana. Fossi un ballerino sarebbe più facile. Pago fa il mecenate, quello che accoglie i film, vuole aprire un cinema, non fare film. Eì come se fosse Zio Paperone, solo lui può nuotare nel suo deposito. Quelle monete sono metafora dei ricordi. Non le spende perché ha paura che la vita gli scappi dalle mani. Quando apri un cinema pensi lo stesso: vuoi riproiettare in continuazione la vita che gli scappa. Più che a una fuga spero in un rimanere che funzioni”.
Cesare Bocci, marchigiano, ha modo di usare il dialetto: “E’ il più bello del mondo – dice l’attore, spietato ricattatore nel film – volevo recitare in veneto. Il marchigiano di solito è usato con scopi parodistici. Ma il regista mi ha detto di provare ed è stato figo, stimolante, certamente una cosa originale. Antonio ti lascia libero di fare, puoi fare qualsiasi cosa, ma in realtà ti frega. Se ne va al Bar e poi decide cosa fare.
Però sono 37 anni che lavoro a Roma. La precarietà la vivo con mia figlia, che fa la grafica e la web media manager. Non so nemmeno pronunciarli questi suoi lavori. Ha preso la laurea, ma poi mi ha dato una coltellata: vuole fare l’attrice. Beh, benvenuta nel mio mondo. Io sono ancora precario. Però la vedo felice. E la precarietà ti porta a sviluppare il senso di sopravvivenza. Insegui un sogno, questa è la scoperta della vita. Non faccio parte di coloro che aspirano al posto fisso, e quindi sono contento anche per mia figlia, la vedo come una che combatte”.
Nonostante il cotè malinconico, il film ha una parte divertente, guascona, tipicamente “di banda”. “Ho una scarsissima personalità nella vita – dice Guenzi – mi superano alla posta, i camerieri non mi filano al ristorante, al Bar ordino sempre per ultimo. E faccio un lavoro in cui ci si deve far notare. Ho bisogno assoluto di una band. Quando non vedo i miei compagni di band sto male e fatico a ordinare da mangiare. A pagare un bollettino però non ci vado con la band. I miei compagni mi sono mancati per cinque anni. Sono riuscito solo a pagare. Ritrovarli è stato fantastico”.
A dirigere l’orchestra però era Pisu: “Un lavoro facile, in questo caso. I ragazzi avevano già una grande intesa. Si conoscevano da una vita, nel primo era più complicato. Qui era come tornare in gita insieme. Altra parte meravigliosa è stata lavorare col cast bulgaro. In alcuni casi ho voluto eliminare i sottotitoli appositamente per dare la sensazione di scarsa comprensione che hanno gli stessi protagonisti. La lingua comune sul set era l’inglese, anche se spesso come italiani lo reinterpretavamo”.
Guenzi racconta: “Volevo fare la rockstar e svegliarmi tardi. Faccio l’attore e mi sveglio prestissimo, ma quando vedi altre persone stravolte come te e inizi a parlarci di vita, a berci insieme, capisci che non è tutto così sbagliato. Stai per settimane in un furgone con gli amici e pensi che non ci sia altra forma di vita. Poi il set finisce e capisci che la vita ricomincia. E’ come stare in tournée. C’è vita oltre Matteo Gatta!”
Torna a parlare il regista: “Sono io stesso un ‘cazzone’, scusate il termine. In ogni film metto qualcosa di mio. Il tono che preferisco è il tragicomico, quindi per mantenere nella storia una certa credibilità, ho lavorato di fino. Tre ragazzi sventurati si trovano in una situazione drammatica. Non bisognava esagerare nel comico. Nelle proiezioni il pubblico ha reagito bene, ci sono state risate anche in momenti fortemente drammatici. Questo mi aiuta anche a parlare di un periodo storico che alcuni hanno dimenticato, per altri potrebbe essere un nostalgico ricordo”.
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