Era bello da far paura, e lo sapeva. Ma sotto quella bellezza da manifesto c’era un ragazzo venuto su nella miseria, con il Bronx negli occhi e la fame negli zigomi. A cent’anni dalla nascita, Tony Curtis – nato Bernard Schwartz il 3 giugno 1925 – resta il volto emblematico di un’America che voleva dimenticare la guerra e innamorarsi del sogno. Non ci ha restituito solo un attore: ci ha lasciato una maschera affascinante, un sogno a luci forti che seppe passare con disinvoltura da Gigolò a Casanova, da evasore in tailleur a truffatore in smoking.
C’è stato un tempo, tra la fine degli anni Quaranta e i primi Cinquanta, in cui le star di Hollywood si dividevano in “beefcake” e “cheesecake”: uomini muscolosi e donne da calendario. Tony Curtis, con i suoi bicipiti in bella vista e lo sguardo da ragazzo di strada pronto a farsi valere, fu una risposta maschile ai manifesti di Jane Russell o Esther Williams. A molti questa femminilizzazione del corpo maschile non piacque: Betty Grable si lamentava dell’invasione, Jeanne Crain ironizzava su colleghi troppo impegnati a flettersi il petto per concentrarsi sulle scene d’amore. Ma Curtis, tra i più giovani di quel club, seppe rendere il corpo un’arma di fascino e leggerezza, giocando con la bellezza senza mai diventarne prigioniero.
Perché Tony Curtis è stato il principe del glamour e del travestimento, il re del sottinteso. Dietro la sua bellezza carnale e la dizione nasale da Bronx c’era un attore serio, spesso più consapevole del proprio mito di quanto Hollywood fosse pronta ad ammettere.
La sua carriera, punteggiata da alti gloriosi e discese più o meno controllate, trova due apici indiscussi — anzi, forse tre, se si include La parete di fango (1958), potente parabola sulla convivenza forzata e sul superamento del pregiudizio, in cui Curtis recita accanto a Sidney Poitier con un’intensità ruvida e viscerale, conquistando la sua unica nomination all’Oscar.
Il primo si chiama Piombo rovente (1957), dove nel ruolo del pubblicista Sidney Falco, Curtis straccia per sempre l’etichetta di attor giovane e si infila nel cuore nero del potere mediatico. Falco è un animale urbano, nervoso, azzimato, tragicamente brillante. Un personaggio che sembra scivolato fuori da una pièce di Odets e che Curtis recita come se fosse nato con quel veleno in bocca.
Il secondo, A qualcuno piace caldo (1959), è una sinfonia di doppi fondi e ambiguità, dove Curtis è tre uomini in uno: Joe il musicista, Josephine la donna, Junior il milionario finto. In ciascuno di essi, Curtis gioca col genere, con l’identità e con la seduzione, lasciando che sotto il trucco emerga un sottile, intimo stupore. Con Marilyn Monroe e Jack Lemmon, inventa una commedia impossibile da ripetere, dove ogni battuta è cesellata e ogni sguardo è un invito.
Eppure dietro il sorriso da copertina c’è una parabola tragica, una fame antica: quella di un ragazzo ebreo, figlio di un sarto e di una madre instabile, cresciuto nella miseria più cruda, che ha visto il fratello morire travolto da un camion e l’altro perdersi nella malattia mentale. Tony Curtis una volta incontrò un uomo con il suo stesso nome di nascita, Bernie Schwartz, e la stessa città natale, New York. Si sentì minacciato da questa coincidenza e gli disse: “Io non vengo da Brooklyn. Sono nato a Londra e rapito dagli zingari”. In realtà, come scrisse nella sua autobiografia, proveniva dalla giungla dell’incrocio tra East 78th Street e First Avenue, dove il suo aspetto da bel ragazzo lo rendeva un bersaglio per i bulli del quartiere.
Nato da una coppia ungherese, Emanuel (che sognava di fare l’elettricista e divenne invece sarto) e Helen (una donna con tendenze schizofreniche e violente), Curtis fu il primogenito di tre fratelli. Il più piccolo, Robert, ereditò la fragilità mentale della madre e trascorse la maggior parte della vita in istituto. Il fratello di mezzo, Julius, morì tragicamente investito da un camion. Questa infanzia segnata da dolore, precarietà e violenza, fu il carburante di una carriera basata sulla metamorfosi e sulla fuga.
Quando approdò a Hollywood, Curtis stesso ammetteva di sentirsi come un ragazzo selvatico, impacciato e spaesato. Non aveva mai messo piede in una casa privata, e il ricordo della sua prima visita è legato a un’insegna rotta che illuminava la notte: invece di “Hollywood”, si leggeva solo “Ollywood”. All’epoca aveva in tasca poco più di quattro dollari. Bussò alla porta di Shelley Winters presentandosi con una faccia tosta disarmante: “Sono Bernie Schwartz. Mia madre conosce tua zia Fanny del Bronx e ha detto che devi aiutarmi finché non mi sistemo”. Winters, colpita dal suo aspetto da giovane marinaio e dalla sua innocente determinazione, gli offrì ospitalità e un’amicizia sincera. Fu lei a presentarlo a nuovi ambienti, a trovargli un letto più stabile di un divano, e persino a suggerirgli (secondo alcune versioni) il nome d’arte con cui sarebbe diventato famoso.
Curtis ha attraversato il peplum, il noir, la commedia, il melodramma. Ha recitato con Cary Grant (imitandolo con rispetto e ironia), ha sfidato Kirk Douglas, ha condiviso la scena con Sinatra. Ha vestito i panni del leggendario illusionista in Houdini (1953), del gladiatore ribelle in Spartacus (1960), e del serial killer Albert DeSalvo in Lo strangolatore di Boston (1968), offrendo una delle sue prove più intense e disturbanti.
Ha saputo adattarsi al registro bellico in Operazione sottoveste (1959) e in I due volti della vendetta (1961), accanto a Frank Sinatra. Ha brillato nella commedia sofisticata di Non facciamoci prendere dal panico (1960) e ha esplorato la biografia drammatica con The Outsider (1961), dove impersona l’eroe di guerra Ira Hayes. In Il grande impostore (1961) si diverte a giocare col tema della mistificazione, impersonando una galleria di identità fasulle con eclettica versatilità.
Ma Curtis è anche l’attore di La grande corsa (1965) del suo amico regista Blake Edwards, una farsa ad alto budget dove la sua brillantezza si fa cartone animato, e di Goodbye Charlie (1964), con Debbie Reynolds, che mostra il lato più leggero e surreale della sua recitazione.
Ha cercato, a volte trovato, più spesso rincorso il ruolo definitivo. Negli anni ’80 e ’90, Tony Curtis ha continuato a lavorare tra cinema e televisione, accettando ruoli minori ma mai anonimi. Lo si vede in film come La signora in bianco di Nicolas Roeg (1985), dove interpreta un vecchio presidente ispirato a Eisenhower, o in apparizioni eccentriche come Leprechaun (1993), che testimoniano un’autoconsapevolezza ironica sul proprio mito. In televisione è ospite fisso di talk show e serie, da Vega$ a Lois & Clark, fino a ruoli cameo nei film indipendenti. Il suo destino era forse quello del camaleonte: splendere fugacemente, trasformarsi incessantemente, e reinventarsi, anche tra le pieghe di un cinema che sembrava averlo dimenticato. In fondo, lasciare il segno più nelle maschere che nei ritratti è una forma sofisticata di sopravvivenza.
Ma il suo destino era forse quello del camaleonte: splendere fugacemente, trasformarsi incessantemente, lasciando il segno più nelle pieghe delle maschere che nella fissità dei ritratti.
Curtis non si è mai fermato. Anche nei decenni in cui la fama sembrava appannata, continuava a presentarsi, a dipingere – negli ultimi anni si era dedicato con passione alla pittura, esponendo le sue opere in gallerie internazionali e reinventandosi ancora una volta – a recitare, a esistere come personaggio e persona. Aveva capito che il cinema è una promessa, e lui ne è stato per anni il volto più seducente. Tony Curtis è stato l’immagine stessa della trasformazione: da ragazzo del Bronx a divo planetario, da caricatura a leggenda.
Oggi che avrebbe compiuto cent’anni (è morto il 29 settembre 2010, per un arresto cardiaco nella sua casa vicino a Las Vegas), resta una delle presenze più vive dell’epoca d’oro di Hollywood, una stella che ha saputo abbagliare e smarrirsi, senza mai spegnersi davvero.
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