CANNES – C’è qualcosa di stonato e al tempo stesso dolcemente coerente nella figura di JB Mooney (Josh O’Connor), falegname disoccupato e ladro di opere d’arte. Lontano dalle esplorazioni rurali o dagli interni femminili della provincia americana che hanno reso celebre la regista Kelly Reichardt, The Mastermind si muove in un’America marginale ma non più rurale, del 1970: un’America di magazzini abbandonati, case sequestrate, musei quasi desolati, dove il tempo non scorre ma ristagna. Ed è qui che il falegname — corpo teso, andatura sbilenca, volto a metà tra l’angelo caduto e il mestierante del nulla — costruisce la sua parabola di sopravvivenza e sconfitta.
Lui è un uomo che s’intuisce conosca il legno: la meteria s’accarezza, s’annusa, si misura con lo sguardo, ma lui non la lavora più, non la manipola più; in questa competenza sterile si apre il baratro e Reichardt evita ogni compiacimento narrativo, c’è solo deriva.
Josh O’Connor modula la sospensione: interpreta il falegname come un uomo che ha perso il significato del proprio io, i suoi movimenti hanno lentezza meccanica e la demotivazione lo guida. È così che si trasforma in ladro, non per vocazione, ma per mancanza di alternative; ruba arte come se stesse restaurando se stesso?
Il titolo The Mastermind, con la sua ironia ambigua, suggerisce una mente criminale, ma anche una mente che sfugge, che si mimetizza. Mooney non è un genio del crimine, ma un uomo che scivola nel furto lentamente, per necessità, forse anche per scommessa. I quadri che sottrae diventano oggetti totemici: più che rubarli, sembra liberarli. Li nasconde come reliquie, in una liturgia laica che mescola feticismo, disperazione e bisogno di bellezza. Reichardt filma con un’intimità sorprendente: l’arte non è mai mostrata frontalmente, ma in scorcio, in frammenti. Così come il personaggio di O’Connor.
L’attore costruisce un personaggio spezzato senza mai cadere nel patetico: il suo volto lungo e scavato qui diventa una topografia dell’inadeguatezza. Quando Mooney sorride (raramente) è come se la pelle non sapesse più come farlo. La sua interpretazione è tutta giocata sull’interiorità trattenuta. Reichardt lo segue con una compassione chirurgica: lo isola, lo incastra nei margini, lo accompagna nei silenzi.
The Mastermind crea un’atmosfera di desolazione e dubbi d’inettitudine, ma probabilmente nelle intenzioni dell’autrice c’è anche il desiderio di mettere un fuoco sul rapporto perduto tra l’umano e l’opera, in cui JB Mooney restituisce a una dimensione tattile, pre-mercantile, quasi infantile. E in questo, forse, si nasconde il gesto più radicale del film: non la denuncia sociale, non l’analisi psicologica, ma una riflessione sulla possibilità di cura attraverso la sottrazione.
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