In arrivo nelle sale italiane dal 3 aprile, distribuito da Be Water Film in collaborazione con Medusa Film, The Last Showgirl è l’ultimo film della regista Gia Coppola, racconto malinconico di una soubrette di Los Angeles interpretata da una sorprendente Pamela Anderson.
L’attrice, sex symbol degli anni ’90 e volto indimenticabile di Baywatch, infonde il racconto del proprio vissuto, restituendo il calco vivente e crepuscolare di un’epoca giunta al termine. Anderson è Shelly, iconica ballerina e showgirl di Las Vegas. Dopo trent’anni di carriera sul palco delle “Razzle Dazzle” fa i conti con la propria vita negli ultimi giorni prima della chiusura definitiva dello show, ormai datato per i nuovi standard degli spettacoli moderni. Per questa vita, Shelly ha rinunciato a tutto, persino a sua figlia, interpretata da Billie Lourd. Nessuno sembra capire perché, ma “l’ultima Showgirl” va in scena e sorride, affrontando tutti. A completare questo intenso slice of life, troviamo anche il premio Oscar Jamie Lee Curtis, migliore amica della protagonista ed ex ballerina caduta in disgrazia e ora cameriera con il vizio del gioco d’azzardo, Dave Bautista nel ruolo di Eddie, responsabile tecnico dello spettacolo, unico uomo ad apparire in scena ma incapace di esprimere i sentimenti nascosti per Shelly, e infine le giovani attrici Kiernan Shipka e Brenda Song, nei ruoli di ballerine in cerca di una figura materna.
Gia Coppola, discendente di una delle famiglie cinematografiche più note di Hollywood, trova nel volto di queste showgirl l’occasione di riflettere su temi come l’invecchiamento, la solitudine e la disillusione. Casuale ma non indifferente che questo film giunga in sala a pochi mesi da The substance, con cui condivide molti aspetti. A differenza della terrificante avventura body-horror con Demi Moore, The last showgirl sceglie però un approccio più realistico ed emotivo. Con immagini dirette in pellicola 16mm, Gia Coppola avvolge una Las Vegas che sembra esistere solo quando il sole è sul punto di sparire. Uno scenario decadente e malinconico, ma vibrante, che ricorda, per immaginario proposto e umanità narrate, i lavori del neo vincitore agli Oscar Sean Baker, come Florida project.
Il corpo delle showgirl, protagonista dei loro spettacoli, è negato o capovolto. Coppola resta sui volti, segue – con camera a mano – frammenti di sguardi e movimenti delle mani, restituendo l’umanità di queste donne. Lo spettacolo a cui Shelly ha dedicato la propria vita appare solo alla fine. È un istante, che contiene in sé l’intera esistenza della donna. Lo spettatore è invitato a un diverso show, che vive invece nella testa di Shelly. È come lei si vede, come si racconta, e come al contrato la vedono e raccontano gli altri, a importare davvero; molto più della realtà dello show stesso.
Un sogno che si infrange, così potremmo riassume l’oggetto d’indagine della Coppola. Shelly è infatti un prodotto di Los Angeles, e così degli Stati Uniti, perfetta espressione di un immaginario di bellezza che l’ha plasmata e dimenticata, abbandonandola infine a se stessa. Alienata, l’ultima Showgirl vive solo conflitti: con le colleghe, con la figlia, con se stessa. Allo showbiz deve ogni cosa, soprattutto il proprio dolore. Coppola ama il personaggio, ma non per questo la salva dalle peggiori angherie, scatenando un’empatia inevitabile nei suoi confronti. Andare avanti nonostante tutto è infatti l’altro fronte di questo racconto. Ed è qui che Anderson mette tutta se stessa: nei sorrisi che forza sul volto davanti ai pochi spettatori rimasti a guardarla, promessa di una seconda vita ancora possibile.
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