“Vivo la vita ai margini della società, e le regole della società normale non si applicano a coloro che vivono ai margini”, ecco in queste parole lo spirito indipendente e ribelle di Tamara de Lempicka – nata a Varsavia il 16 maggio 1898, che ha sempre cercato di definire la propria identità al di fuori delle convenzioni sociali e artistiche del suo tempo. La sua determinazione a vivere secondo le proprie regole si riflette non solo nella sua vita personale ma anche nel suo stile artistico distintivo, che combina elementi del Cubismo e del Neoclassicismo con una sensibilità moderna e sofisticata.
Queste sue parole offrono uno spunto prezioso per comprendere la complessità della figura della pittrice e la sua rilevanza come soggetto cinematografico, capace di incarnare temi universali come l’autodeterminazione, la sfida alle convenzioni e la ricerca di un’espressione autentica.
Contrariamente a molte figure centrali dell’Arte del Novecento, Tamara de Lempicka non è stata oggetto di una trasposizione cinematografica definitiva – nessun biopic hollywoodiano monumentale, nessuna miniserie dal respiro enciclopedico. Eppure, la sua presenza visiva e simbolica attraversa con insistenza documentari, fiction teatrali, rievocazioni artistiche e performance musicali. Questo paradosso è rivelatore: Lempicka non è solo un’artista, ma un’immagine, un’estetica, un linguaggio visivo che ha influenzato la moda, la pubblicità, la fotografia e l’immaginario queer. La sua figura è plastica, disponibile all’interpretazione – per questo sfuggente.
I progetti audiovisivi che hanno cercato di raccontarla si dividono in due filoni principali: da una parte la rievocazione storica, filologica, talvolta didattica; dall’altra la reinterpretazione simbolica, teatrale, quasi operistica. Nel primo caso, lei appare testimone e vittima del proprio tempo: un’artista in fuga, una donna moderna intrappolata nelle contraddizioni del secolo breve. È il caso, per esempio, del recente The True Story of Tamara de Lempicka & The Art of Survival, che intreccia biografia e trauma con rigore documentario e tono elegiaco. Nel secondo caso, invece, prevale la Lempicka-mito: la femme fatale, la creatura androgina, la regina Art Déco; qui l’estetica prende il sopravvento sull’analisi, ma spesso rivela più di quanto sembri…
La costante è che Tamara de Lempicka non sia mai solo un personaggio da rappresentare, ma un prisma attraverso cui riflettere su genere, identità, potere e autorappresentazione.
La sfida, per chi la mette in scena, è doppia: raccontare un’esistenza e – al contempo – confrontarsi con l’enigma di un’immagine costruita con straordinaria consapevolezza estetica. È forse questo che rende ogni tentativo incompiuto e al tempo stesso necessario: ogni film sulla pittrice è, in fondo, un autoritratto riflesso, non solo dell’artista, ma di chi prova a narrarla.
Il racconto cinematografico più recente su Tamara de Lempicka è un documentario completo e visivamente affascinante, che ne ripercorre la vita dalla sua ascesa nella Parigi degli Anni ’20 alla fuga dal fascismo e al successivo trasferimento negli Stati Uniti: THE TRUE STORY OF TAMARA DE LEMPICKA & THE ART OF SURVIVAL (2024, USA) include filmati inediti, documenti d’archivio e testimonianze dei suoi discendenti, offrendo una nuova prospettiva sulla sua identità e sul suo impatto artistico. Questo doc si distingue per profondità e ricchezza visiva: scegliendo repertorio, animazioni e testimonianze dirette degli eredi esplora l’esistenza di Lempicka, in cui si restituisce particolarmente toccante la questione delle sue origini ebraiche, precedentemente celate, che aggiunge ulteriore dimensione alla comprensione della sua arte e delle sue scelte di vita. Il racconto offre una narrazione avvincente che intreccia Arte, identità e resilienza, restituendo un ritratto autentico e complesso dell’artista . In questo documentario, l’interpretazione di Tamara de Lempicka si costruisce per evocazione: la sua voce, le sue lettere, le sue opere e soprattutto le testimonianze familiari (tra cui spicca quella della pronipote Marisa De Lempicka) danno forma a una figura stratificata: la regista si affida alla voce di Anjelica Huston, propria di una potenza drammatica contenuta, severa e a tratti malinconica; Huston non “recita” Lempicka ma la evoca con un tono epico e riflessivo, come si fa con le grandi figure inquiete del Novecento. Il film rifiuta il mito patinato e bidimensionale, scegliendo invece un percorso che indaga la fragilità nascosta dietro il glamour: Lempicka emerge tanto algida quanto vulnerabile, simbolo di un’epoca dorata e, al tempo stesso, costretta a piegarsi alla brutalità della Storia. Il documentario raggiunge un equilibrio raro tra elegia e biografia.
TAMARA – LA DONNA D’ORO, invece, è un mediometraggio tv del 1981 diretto da Carl-Gustav Nykvist, regista e direttore della fotografia svedese noto per sensibilità visiva e narrativa. Il film è una co-produzione tra Svezia, Italia e Finlandia, realizzata con il sostegno dell’Istituto Svedese di Cinematografia e della RAI: il racconto ha una personalità contemplativa e pittorica, che riflette in modo coerente l’universo estetico della protagonista. L’autore è figlio del leggendario direttore della fotografia Sven Nykvist: Carl-Gustav adotta una grammatica visiva fortemente influenzata dalla pittura e l’inquadratura è spesso statica, quasi come un tableau vivant, con i corpi femminili splendidamente illuminati, come tratti da una tela Déco. La luce radente, i colori saturi e l’uso calibrato dello spazio evocano direttamente l’opera di Lempicka, restituendo a chi guarda un’esperienza visiva immersiva e profondamente coerente con il soggetto biografico. La regia s’affida a un andamento ellittico, fatto di frammenti e reminiscenze, che spezza la linearità temporale e costruisce un ritratto della protagonista più simbolico che realistico. Questa scelta evita l’approccio didascalico tipico del biopic tradizionale, per privilegiare invece un tono meditativo e quasi onirico. Kersti Vitali, nel ruolo della protagonista, è sottilmente trattenuta e ricca di sfumature, l’attrice non si limita a imitare la figura storica, ma ne incarna il fascino enigmatico, la determinazione e la vulnerabilità con un’intensità silenziosa; riesce a trasmettere il senso di una donna che ha saputo plasmare la propria immagine con rigore quasi teatrale, ma che dietro quella maschera cela turbamenti profondi. Fondamentale, in questo senso, è anche la voce narrante, affidata a Gunnel Lindblom, che conferisce al personaggio una dimensione interiore malinconica e riflessiva, quasi confessionale. Nel complesso, Tamara – La donna d’oro è un esempio di biografia cinematografica che riesce a diventare, essa stessa, un’opera d’arte visiva: non tanto un racconto della vita di un’artista, quanto un film che sembra essere “dipinto” secondo la sua stessa visione del mondo.
C’è poi TAMARA DE LEMPICKA – THE QUEEN OF ART DÉCO (2022), documentario di 50 minuti che introduce il pubblico alla biografia di Lempicka, evidenziando il suo stile distintivo e il suo ruolo nel Déco. Prodotto da ARTE, il film evidenzia il contributo dell’artista nella corrente d’appartenenza e il suo stile inconfondibile. Sylvie Kürsten presenta un ritratto intimo, con l’attrice Nicole Heesters a darle corpo: pur non approfondendo in modo esaustivo ogni aspetto della carriera, il doc rappresenta un valido punto per comprendere il suo impatto sull’Arte del XX secolo; un doc che costruisce il ritratto di Lempicka per accumulo visivo e narrativo, così la protagonista diventa qui un’icona, e come tale è trattata: la narrazione non problematizza il personaggio, ma lo rafforza come simbolo dell’Art Déco. Il rischio – in parte evitato grazie alla puntualità storica – è quello dell’agiografia, ma il documentario riesce a suggerire, anche solo per accenni, il lato oscuro della personalità dell’artista: la manipolazione della propria immagine, l’ambizione spietata, la relazione ambivalente con il potere. Il risultato è una figura mitica, splendidamente inquadrata nel suo tempo, ma meno esplorata nei suoi conflitti interiori. La regia sobria e l’attenzione ai dettagli storici offrono una visione intima e rispettosa dell’artista, con Kürsten che adotta un approccio semi-fictionalizzato e l’attrice tedesca Heesters, ormai ottantenne, a dare volto e voce a una Lempicka matura, rivolta a se stessa e al passato; l’interprete non imita ma incarna, e la sua interpretazione non tenta di replicare la sensualità aggressiva della giovane polacca, bensì ne coglie lo scarto, la riflessione tardiva, l’eco malinconica della giovinezza perduta. È un’interpretazione crepuscolare, e in ciò estremamente potente. Un lavoro raffinato, per chi cerca un’analisi psicologica più che un affresco visivo.
Tamara de Lempicka è stata una delle artiste più iconiche del Novecento, figura centrale del movimento Déco e pioniera di uno stile pittorico che fondeva classicismo rinascimentale, modernismo geometrico e sensualità contemporanea. Nata a Varsavia in una famiglia dell’alta borghesia, visse tra San Pietroburgo, Parigi, New York e Hollywood, reinventandosi più volte in fuga dalla guerra, dalla rivoluzione e dall’oblio: amante della mondanità e dell’ambiguità, fu pittrice della bellezza femminile, dell’erotismo lucido, della potenza dell’individuo nel pieno delle trasformazioni sociali del XX secolo. Il cinema trova in lei un soggetto affascinante proprio per questa molteplicità: artista e musa, madre e fuggitiva, icona queer e stratega dell’immagine, incarna un tipo di modernità che è al tempo stesso emancipazione e maschera. La sua vita è un racconto di ascesa, disillusione e sopravvivenza estetica — perfetto per essere esplorato attraverso il linguaggio visivo, che come lei, cerca sempre una forma assoluta.
L’immaginario pop globale ha gli occhi pieni della visione d’arte di Lempicka, vibrazione cromatica decisa e tratti senza tentennamenti di personalità sono la sua firma, rintracciabile sempre, sin dalle sue prime opere e fino alle ultime: ecco, dunque, La Musicienne (1923), Jeune fille en vert (1927), Portrait de Madame M. (1929), il suo capolavoro mediatico Autoportrait (Tamara in a Green Bugatti) (1929), La Dormeuse (1930), Le Rêve (Ragazza con una colomba) (1930), Portrait of the Duchess de La Salle (1935), Nude with Dove (1962), una delle sue ultime opere conosciute, più morbida e pittorica, che segna un allontanamento dallo stile rigidamente geometrico degli Anni ’20–’30, verso una nuova forma di Classicismo.
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