MILAZZO – Protagonista assoluto dell’apertura dell’undicesima edizione del Milazzo Film Festival – Attorstudio è stato Sergio Rubini, che come pochi incarna l’estro, la brillantezza e la visione di un attore a tutto tondo, che spazia dal teatro al cinema; non solo davanti, ma anche dietro la macchina da presa. Dopo avere portato al pubblico di Milazzo il suo spettacolo Sud, nella preapertura del festival, oggi 6 marzo l’attore e regista ha ricevuto l’Excellence acting award dalle mani dei direttori artistici Caterina Taricano e Mario Sesti.
L’incontro è stata l’occasione per rievocare alcuni momenti cruciali della sua carriera. “Ho lavorato nel 1986 con Fellini in un film che si intitolava Intervista e, in parte, era ambientato a Cinecittà, dove giravamo una pellicola e ad un certo punto da una collina arrivavano degli indiani che al posto delle frecce avevano delle antenne. – racconta Rubini – Già quindi 30 anni fa Fellini raccontava l’assalto delle tv al Cinema. Tutto questo è poi avvenuto però le piattaforme se non ci fosse stato il Cinema sarebbero come delle scatole vuote”.
Abbiamo avuto l’occasione di parlare con Rubini, poco prima che salisse sul palco del Teatro Trifiletti per ritirare il premio.
Sergio Rubini, siamo in un festival che si vuole dichiaratamente e orgogliosamente incentrare sulla figura dell’attore. Pensa che si stia perdendo l’artigianalità di questo mestiere fatto di lavoro, studio e fatica?
È un problema che va posto, soprattutto se pensiamo a quello che oggi si può fare con l’intelligenza artificiale. Dovremmo cercare di mettere delle regole che ci permettano di tornare a questa dimensione artigianale, che è l’unica possibile per riuscire ad eccellere. Penso che tutto quello che può arrivare dalla tecnologia siano strade più brevi, che volano ad un’altezza molto più bassa di quella che l’artigianalità può regalarci. Tutto quello che anche i giovani attori devono imparare prima di raggiungere il successo, o comunque un risultato. È tutto molto più veloce, ma ciò che accade nel nostro ambiente è un riflesso della società. Sono convinto che siamo anche un po’ dei caproni, una volta che accadrà qualcosa che rimetterà al centro l’attore e la sua ricerca, in generale l’uomo direi, si aprirà una porta.
In che modo la tecnologia sta impattando il mestiere dell’attore?
Tutto ciò che arriva con la tecnologia non può che essere accolto con una certa festosità, perché grazie alla tecnologia riusciamo sempre a superarci, basta che non ci prenda troppo la mano. Il digitale, ad esempio, è superiore alla pellicola, ma non è altrettanto bello. Per cui poi lo si riempie di rumori, gli si tolgono un po’ di pixel, per farlo assomigliare alla pellicola, che è quasi una contraddizione. Di certo è una lezione. Anche se pensiamo alle interpretazioni di questi personaggi ricoperti di plastica e li paragoniamo a quello che faceva ne Il Padrino Marlon Brando, con della semplice ovatta nelle guance. Gli attori hanno il compito di evocare, non necessariamente di diventare il personaggio che interpretano. Bisognerebbe prendere di nuovo lezione dai grandi del passato.
Ieri ha portato un suo spettacolo in scena: può esistere l’attore senza teatro?
L’attore senza teatro non può esistere, come non può esistere una società senza teatro. Lo abbiamo visto durante e dopo la pandemia: tutti gli spazi della socialità sono in sofferenza però lo spettacolo live funziona tantissimo perché non lo puoi sostituire con altro. I film li potrai sempre vedere a casa con un link, con una tv 150 pollici potrai fare a meno dello schermo cinematografico, ma il teatro non potrai mai sostituirlo. E questo è confortante, perché il teatro è fatto dagli uomini e non potremo mai fare a meno degli uomini.
Se pensa a quanto è accaduto nel Lazio, è preoccupato per lo stato delle sale cinematografiche?
Sono preoccupato, sì. In questo caso siamo arrivati un po’ tardi, quando le sale sono state già vendute. Pretendere che quello che le ha comprate per farne un supermercato non ci faccia un supermercato è un po’ assurdo. Mi auguro che il problema venga risolto. Un po’ di tempo fa è venuto a trovarmi a teatro Matteo Garrone, che ha un’idea bellissima in merito: se dobbiamo batterci per delle sale, battiamoci per delle sale da mille posti, non per quelle da cento posti che assomigliano ai salotti di casa nostra. Battiamoci per il cinema di una volta, all’insegna della socialità. Qui parliamo di sale spettacolose, quindi speriamo si riesca a trovare una quadra. Bisognava pensarci un po’ prima.
Restiamo sulla figura dell’attore ma vista dall’altra parte, quella del regista. Lei ha appena diretto una miniserie su Leopardi. Quale è stata la sfida più difficile nel formare un giovane attore sulla figura di questo grande poeta?
Ho visto Leonardo Maltese ne Il signore delle formiche di Gianni Amelio e sono rimasto abbastanza folgorato. La sfida più grande è stata quella di moderare l’amore che avevo per lui, proprio il senso d’ammirazione. Credo che sia un attore davvero speciale. La nostra idea era quella di fare un Leopardi spirituale e Leonardo è un attore spirituale, dostoevskiano direi quasi. La nostra sfida è stata di farlo senza gobba, anche bello, ma contemporaneamente di accedere anche alla poetica più profonda leopardiana. Mettere in scena un personaggio che dal punto di vista fisico non ha nulla a che vedere con la persona reale, però cercando di essere il più vicini possibile al suo pensiero, creando nello spettatore la convinzione che quello fosse davvero Leopardi. Cercare di arrivare attraverso l’eredità più preziosa che ci ha lasciato: il suo pensiero.
Quando si pensa a Leopardi, spesso ci si ferma al pessimismo cosmico. Cosa ha imparato immergendosi a fondo nella sua vita?
Molte volte trasformiamo alcuni personaggi in delle figure da presepe. Invece dietro al pessimismo leopardiano c’è una grandissima vitalità. È stato un poeta molto spregiudicato: il pessimismo era frutto di un eccesso di vitalità, di un’avidità del vivere. Una voglia tradita di vivere a tutti i costi. Non c’era pessimismo a priori. Ho scoperto che dietro la sua poesia più famosa, L’infinito, c’è un grande messaggio di speranza: anche se tra noi e l’infinito c’è una siepe, con la forza del pensiero siamo in grado di proiettarci talmente lontano da raggiungerlo. Il pensiero di Leopardi ha a che fare con un umanesimo a tutti i costi, che è esattamente quello di cui abbiamo bisogno oggi.
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