CANNES – Sergei Loznitsa torna in concorso con Two Prosecutors, un’opera intensa e rigorosa che segna il suo ritorno alla finzione dopo anni di lavori documentaristici di grande impatto. Ambientato nel cuore dell’Unione Sovietica del 1937, il film racconta l’inchiesta di un giovane procuratore che, sfidando il terrore delle Grandi Purghe staliniane, tenta di ristabilire la giustizia in un sistema costruito sulla paura e la repressione. Con la consueta lucidità formale e una narrazione asciutta ma penetrante, Loznitsa firma un dramma morale che interroga il potere, la verità e il coraggio individuale dentro uno degli apparati più oscuri della storia del Novecento.
Il film, che in Italia uscirà con Lucky Red, è un adattamento della novella omonima di Georgy Demidov, fisico e sopravvissuto al Gulag. La produzione è una coproduzione internazionale che coinvolge Francia, Germania, Paesi Bassi, Lettonia, Romania e Lituania, con la partecipazione di studi come SBS Productions, LOOKSfilm, Atoms & Void, White Picture, Avanpost e Studio Uljana Kim .
La fotografia è curata da Oleg Mutu, il montaggio da Danielius Kokanauskis e la musica da Christiaan Verbeek. Il cast comprende Aleksandr Kuznetsov nel ruolo di Kornev, Aleksandr Filippenko come Stepniak e Anatoliy Beliy nei panni di Andrey Vyshinsky .
Loznitsa racconta di aver scoperto il testo nel 2010: “L’ho letto subito e quella storia è rimasta dentro di me. Quando si è presentata l’occasione di fare un film, sono tornato a quel racconto.”
L’approccio, spiega, non è mai stato puramente documentaristico: “Come diceva Picasso, ‘Io non cerco, io trovo’. È stato così anche per me. L’idea di utilizzare un piccolo racconto inserito nell’opera mi è venuta di getto. I motivi sono intuitivi, non razionali.”
Alla domanda se il film non sia solo un’opera storica, Loznitsa risponde con fermezza: “È il riflesso del presente. Sullo schermo vediamo fatti accaduti ottant’anni fa, ma che risuonano con ciò che viviamo oggi. È proprio per questo che abbiamo voluto mostrarlo in un festival, discuterne, scriverne sui giornali. Finché possiamo parlarne liberamente, dobbiamo farlo.”
Una delle chiavi formali del film è la sua struttura binaria. “Tutto gira intorno al numero due,” spiega il regista. “Due procuratori, due detenuti. Uno dei prigionieri manda, senza saperlo, un giovane procuratore incontro a morte certa, nella speranza di una redenzione. Dall’altra parte, una sua ombra grottesca. È una parabola sul potere, sulla giustizia, sulla complicità e sull’illusione della salvezza.”
A chi gli chiede quale sia la differenza tra cinema documentario e cinema di finzione, Loznitsa risponde con ironia: “Il budget.”
Ripete la frase più volte, come se volesse sottolinearne l’assurdità. Ma il tono cambia quando si entra nel cuore della visione politica del film. “Ci sono leader, ci sono politici, ma ci siamo anche noi. E molto dipende da noi. Non dobbiamo arrenderci. Dobbiamo sempre chiederci: cosa fare? In che circostanze? Questo è il nostro compito.”
La riflessione si fa più amara: “Forse, tra cinquant’anni, qualcuno guarderà le nostre vite e penserà che eravamo ingenui. È una questione filosofica: viviamo in condizioni che non vediamo, ma che un giorno ci appariranno evidenti.”
L’ultima parola spetta al protagonista del film, Aleksandr Kuznetsov. Il suo intervento rompe ogni retorica: “Anche se non avessi mai saputo chi fosse Lenin, avrei potuto interpretare il ruolo. Non credo che un attore debba diventare un documentarista. Serve empatia. Devi ascoltare, osservare, sentire. Tutte le risposte stanno nei dettagli.”
Poi aggiunge, con un tono più personale: “Da quando ho lasciato la Russia, provo un fastidio profondo verso questo passato che non passa mai. Non è odio. È qualcosa che ti logora. E che non funziona più. È come cercare di far passare un mobile da una porta: se non ci passa, devi girarlo, trovare un’altra porta. Ecco cosa sta cercando di fare questo film.”
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