Se permettete parliamo di Scola


“Per fortuna qui in Italia ci conteniamo con le celebrazioni anche perché forse abbiamo un certo numero di cose più serie a cui pensare. All’estero, dove non vado, le celebrazioni si sprecano, dalla Francia al Sud America dove vivono ancora nel mito di un nostro cinema che non c’è più. Alla Casa del Cinema invece andrò, non potrei proprio fare diversamente, ma non riesco a dirmi troppo emozionato non è nella mia natura”. Così il regista Ettore Scola, qualche giorno fa ricevendo il David speciale, e che oggi 10 maggio viene festeggiato per i suoi 80 anni alla Casa del Cinema di Roma con tre proiezioni speciali: La famiglia, il cortometraggio 43-97 in cui racconta, nella Roma occupata dai nazisti nel 1943, la storia di un bambino che fugge dal rastrellamento del Ghetto e si rifugia dietro una porta, la porta di un cinema. E per ultimo Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli, la cui sceneggiatura è firmata da Scola insieme al regista e a Ruggero Maccari.

“Mi fa piacere che alla Casa del Cinema mostrino La famiglia che abbraccia idealmente 80 anni di storia italiana e un piccolo cortometraggio contro il razzismo a cui tengo molto”.

Sono circa 40 i titoli di un’infaticabile e vitalissima carriera da regista – da Se permettete parliamo di donne (1964) a Gente di Roma (2003) – ricca di riconoscimenti italiani e internazionali: 6 Nastri d’argento, 5 David di Donatello, 3 César per C’eravamo tanto amati (1977 , Una giornata particolare (1978) e Ballando ballando (1984); 2 Palme d’oro per Brutti sporchi e cattivi (1976) e La terrazza (1980); infine un Orso d’argento per Ballando ballando (1984).

Originario di un paese dell’Irpinia, Scola si trasferisce a Roma giovanissimo, ed entra a soli 16 anni come vignettista nella redazione della rivista ‘Marc’Aurelio’ dove conosce, tra i tanti, Maccari, Steno Age, Scarpelli, Campanile, Marchesi e Metz. E’ grazie a questa gente che si occupa anche di cinema che Scola inizia il suo apprendistato come sceneggiatore, all’inizio scrivendo gag e battute e arrivando poi a collocare il suo nome tra gli sceneggiatori nel 1953 con il film Fermi tutti arrivo io!, il primo di una lunga serie che ne conta quasi 90. Tra i titoli più famosi di una grande stagione della commedia italiana troviamo Il mattatore, Gli anni ruggenti, Il sorpasso, La marcia su Roma, I mostri oltre a quasi tutti i film di Antonio Pietrangeli.

Scola dice di detestare le celebrazioni e l’enfasi, Cinecittà Luce oltre a augurargli a distanza ‘Buon compleanno’, desidera comunque  omaggiarlo con alcune sue riflessioni sul suo percorso artistico e sul mestiere di regista.

 

Gli interrogativi del cinema
Il cinema è dubitativo, non affermativo. Un film non deve dare soluzioni. Però porre interrogativi, sottolineare certi dubbi, avvertire domande che sono nell’aria e riproporle. Credo sia questo uno dei compiti del cinema. Ma non solo del cinema, di ogni d’altra forma d’arte.

Una galleria di emarginati
Il mondo degli emarginati è diventato il centro d’interesse di molti miei film, delle classi espropriate della loro cultura e sottoposte all’influenza dei mass media. Ne è nata una galleria di personaggi di emigrati, di sottoproletari, di proletari, di donne che si ritrovano a vivere i loro sentimenti con una cultura derivata, che non gli appartiene, o a scontrarsi con una cultura egemone che li schiaccia, o a doversi confrontare, come il ragazzo di Trevico-Torino, con la cultura urbana industriale nei suoi aspetti né più negativi né più positivi, ma diciamo diversi dalla cultura contadina cui proviene.

I paesani della Fiat
Trevico, dove sono nato, è il paese di mio padre. Ogni anno ci tornavo e sempre lo vedevo più colpito di altri dall’emigrazione perché, essendo abitato da un migliaio di persone, le defezioni vi appaiono più evidenti. Così pensai di andare a Torino a girare un documentario su questi miei paesani che erano andati a lavorare alla Fiat o che addirittura erano senza lavoro. Una volta a Torino, mi accorsi che si poteva tentare una commistione tra il documentario e la narrazione, con dentro anche qualche scena della commedia all’italiana, quello che avevo sempre fatto. Il progetto non interessò nessuno dei produttori coi quali lavoravo normalmente. Il preventivo di costo era molto basso, trenta milioni, e allora decisi di farlo io, direttamente, per mio conto.

La bottega di Pietrangeli
Antonio Pietrangeli l’ho conosciuto grazie a Carlo Infascelli. Mentre facevamo le canzonette qualche volta venne anche lui. Ma Antonio era serio, non era adatto a quel tipo di sceneggiature. Aveva già diretto il suo primo film Il sole negli occhi. Fece un episodio di Amori di mezzo secolo che gli scrissi io e da allora cominciammo a frequentarci: ho scritto tutti i suoi film, tranne il primo e l’ultimo perché ero in Africa a fare un film con Sordi, Riusciranno i nostri eroi…?
Dovendo pensare a una ‘bottega’ che mi ha formato sicuramente penso ad Antonio, perché a parte le sue radici di critico, aveva interessi letterari. Era diverso da tutti gli altri uomini di cinema con cui lavoravo. Inoltre aveva cara la tematica femminile che all’epoca non esisteva nel cinema italiano, né nel neorealismo, dove la figura della donna è quella della Magnani in Roma città aperta. La donna era generalmente un’appendice dell’uomo: o mamma o puttana o infermiera, non aveva mai l’onore dell’indagine psicologica.

Parliamo di donne
Se permettete parliamo di donne è la mia prima regia, un film a sketch, ma non c’è stato un trauma di passaggio dalla sceneggiatura alla regia. Come sceneggiatore ero soddisfatto, lavoravo con registi che mi piacevano, non ero affatto un frustrato e la decisione di fare il salto dietro la macchina da presa non nacque da questo. Andò invece così: avevo scritto molti film con Gassman e fu una cosa abbastanza naturale, sia da parte sua e di Cecchi Gori – il produttore con cui lavoravamo in modo stabile – dire: “Ma questo perché non lo dirigi tu?” Non so neppure bene su cosa si basasse la loro offerta, perché io non sono mai stato un frequentatore di set e non solo non avevo fatto l’aiuto ma neppure mi piaceva andare dove si girava: su un set ci si sente sempre un po’ intrusi, non si sa che fare, si coglie soltanto la noia mortale delle ripetizioni, tutto qui.

De Sica e l’apologo civile
Uno dei registi che più ho amato è Vittorio De Sica. Con Zavattini ha ‘pedinato’ l’uomo, schiacciato dalla tragica realtà degli anni del neorealismo anche nei momenti in cui nonostante tutto ride, quando è buffo e fantasioso: credo che la dimensione umana somigli appunto a questo miracoloso miscuglio di tragedia e di favola, di mistero e di riso. La commedia italiana è stata la figlia un po’ degenere del neorealismo, una sorta di reazione un po’ reazionaria, in quanto nata come pacificatoria, ‘testimone’ di un’Italia consolata, grassoccia e paesana, dai pochi riferimenti con la realtà. Un cinema di fantascienza (o di fantacoscienza). Poi la commedia italiana è cresciuta, è entrata in maggiore contatto con la realtà, ha scavato di più, si è fatta inquietante, da consolatoria che era è diventata spesso provocatoria. E’ in questa direzione che credo di aver lavorato: verso una commedia italiana nella quale, dietro l’eredità del neorealismo e le ‘magie’ della satira, traspariva l’apologo civile.

 

Le dichiarazioni sono tratte da: Roberto Ellero, “Ettore Scola”, Il Castoro 1995; Franca Faldini e Goffredo Fofi (a cura di), “L’avventurosa storia del cinema italiano 1935-1959”, Feltrinelli 1979, e “L’avventurosa storia del cinema italiano 1960-1969”, Feltrinelli 1981; Franca Faldini e Goffredo Fofi (a cura di), “Il cinema italiano d’oggi 1970-1984”, Mondadori 1984; Vito Zagarrio (a cura di), “Trevico-Cinecittà”, Mrasilio 2002.

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