“L’Arte non può essere moderna. L’Arte è primordiale ed eterna” nell’enigmatico pensiero di Egon Schiele, pupillo di Gustav Klimt, pittore e incisore austriaco, nato il 12 giugno 1890.
Questa frase, tratta dai suoi scritti, riflette la concezione profonda che Schiele avesse dell’Arte: non come moda passeggera, ma come espressione atemporale dell’essere umano. Nel contesto della Vienna fin de siècle, dominata da innovazioni artistiche e culturali, Schiele si distingue per una visione che trascende il tempo, in cui l’Arte è manifestazione eterna dell’anima umana.
Il cinema ha trattato la figura di Egon Schiele – a differenza di altri artisti “canonizzati” dalla Settima Arte – spesso rappresentandolo come corpo esposto prima ancora che come soggetto storico: un artista la cui identità è inseparabile dalla tensione erotica, dalla marginalità, e dal costante confronto con i limiti sociali del suo tempo. Non sorprende, allora, che molti dei film a lui dedicati scelgano di raccontarlo attraverso un’estetica del conflitto – interiore e culturale – più che tramite la ricostruzione cronologica della sua carriera.
Nei biopic come Egon Schiele: Death and the Maiden (2016) la regia indaga la relazione tra l’artista e le sue muse con una sensibilità quasi autoptica, mentre le performance degli attori – da Noah Saavedra a Mathieu Carrière – divergono radicalmente nella resa del personaggio: il primo ne fa un corpo ferito e trasparente, il secondo lo trasforma in un’emanazione teatrale dell’eros e del disordine. I documentari, da Dangerous Desires a Klimt & Schiele: Eros and Psyche, tendono invece a riflettere più sul mito che sull’uomo, usando la sua voce, i suoi scritti e i suoi autoritratti come dispositivi per evocare.
La figura di Schiele, quindi, nel linguaggio cinematografico resta fondamentalmente instabile: oscillante tra la dimensione di martire laico dell’Arte Moderna e quella di artista controverso, irriducibile a un’etica consolidata. Il cinema lo esplora non per definirlo, ma per restituire – nella forma audiovisiva – la stessa vertigine che attraversa i suoi disegni: quella del desiderio, della colpa, e della bellezza come atto estremo.
Cominciando da vicino, in termini geografici e temporali, ecco KLIMT & SCHIELE: EROS AND PSYCHE (2018), documentario italiano di Michele Mally, che orchestra un saggio visivo di grande eleganza, in cui le vite parallele di Klimt e Schiele diventano il pretesto per raccontare la Vienna del tempo come crocevia di rivoluzioni estetiche e inquietudini moderne. La narrazione di Lorenzo Richelmy è sostenuta da una regia plastica e dalla fotografia sontuosa. Un film divulgativo, ma mai banale, che riesce a fondere rigore storico e seduzione visiva con raro equilibrio. Nelle ricostruzioni sceniche (reenachment), l’artista viene messo in scena con brevi ma intensi segmenti teatrali che punteggiano il documentario: il passo è sobrio e misurato, più vicino al monologo drammatico che alla performance cinematografica. Viene proposto uno Schiele riflessivo, quasi stoico, filtrato da un’estetica museale che tende alla composizione plastica. Non c’è urgenza emotiva né eccesso, ma una compostezza ieratica che restituisce il senso di sacralità laica con cui il film guarda all’Arte viennese. Lontano dal pathos, si costruisce un personaggio che sembra consapevole di essere già diventato figura storica, simulacro, icona.
EGON SCHIELE: DANGEROUS DESIRES (2018) di Teresa Griffiths offre una figura elegante e trattenuta: si lavora per evocazione, con gesti sospesi, sguardi a distanza, una malinconia accennata ma mai compiaciuta. È il corpo di un artista che ha già varcato la soglia dell’inquietudine e si trova immerso nella propria mitografia. Schiele è filtrato dalle parole scritte, ma proprio in questa intermediazione riesce a restituire una dimensione intima e lirica. Si lavora “per sottrazione”, lasciando che sia la voce a costruire la profondità del personaggio. Prodotto dalla BBC, questo doc è un sofisticato esempio di narrazione biografica costruita attraverso fonti primarie, illustrazioni d’archivio e rievocazioni drammatiche. Griffiths sceglie un tono sobrio ma penetrante, costruendo un montaggio serrato in cui le lettere e i disegni di Schiele diventano materia viva. La presenza vocale di Iggy Pop aggiunge una vibrazione ruvida, outsider, che ben si sposa con lo Schiele artista maledetto e incompreso.
Decisamente particolare è PORTRAIT OF WALLY (2012, Andrew Shea). Lontano dalla dimensione biografica, è un legal thriller in forma documentaria che illumina le zone d’ombra della Storia dell’Arte del Novecento. Shea racconta con rigore e passione civile la controversia internazionale sul furto nazista del celebre ritratto di Wally Neuzil, musa e compagna di Schiele. Il film non è solo un’inchiesta su un’opera trafugata ma un’indagine più ampia sul valore simbolico e morale dell’Arte nella memoria collettiva. Egon Schiele non compare direttamente (se non tramite immagini e archivi), è una presenza fantasma: s’insinua come assenza tangibile. La sua immagine — dipinta e fotografica — diventa oggetto di conflitto e rivelazione. La “recitazione” in questo caso avviene per delega: sono i testimoni, i curatori, i collezionisti a “interpretare” Schiele, ciascuno a proprio modo. Il ritratto di Wally diventa lo schermo su cui si proietta una lotta per la memoria, e lo spettatore è chiamato a interrogarsi non tanto su chi fosse Schiele, ma su chi sia diventato nel racconto contemporaneo: una figura disputata, simbolica, fragile nella sua iconicità postuma.
Dal thriller alla prigione con SCHIELE IN PRISON (1980) di Mick Gold. Questo mediometraggio britannico affronta uno degli episodi più controversi della vita di Schiele – la prigionia per presunti reati morali – come un esercizio di critica culturale. Il tono è asciutto, quasi documentaristico, ma l’approccio è marcatamente intellettuale: le immagini si alternano a riflessioni che demistificano tanto l’artista quanto il sistema giudiziario. È un’opera minima, ma lucida, che problematizza la figura di Schiele senza indulgere né nel culto né nella condanna. In questo breve ma denso racconto, viene proposta e sorprende un’interpretazione minimalista e introspettiva: Schiele è un uomo spogliato di ogni maschera, colto nel momento di crisi e di esposizione assoluta. Del pittore si modula la voce con cura quasi liturgica, come se stesse pronunciando un testamento. Il volto è scavato, lo sguardo assente, ma non c’è teatralità: piuttosto una rarefazione espressiva che si sposa perfettamente con il tono analitico del film. Lontano da ogni estetizzazione, questo Schiele sembra più un sopravvissuto che un ribelle, e in ciò risiede l’originalità silenziosa.
Ancora, ecco l’opera visionaria e perturbante di Herbert Vesely, EGON SCHIELE – EXZESS UND BESTRAFUNG (Egon Schiele – Inferno e Passione, 1981), trasposizione allucinata del mito schieleano, immersa in un’atmosfera lisergica che rievoca il cinema sperimentale degli Anni ‘70. Mathieu Carrière è un Egon isterico e febbrile, mentre Jane Birkin (Wally) offre un controcanto etereo e insieme tragico. Il film è un’evocazione estetica, una parabola sul corpo come campo di battaglia tra impulso creativo e colpa, tra desiderio e dannazione. Carrière costruisce un Egon Schiele dionisiaco, tormentato, quasi isterico, in sintonia con la grammatica visiva allucinata del film. La sua interpretazione è declinata in chiave espressionista: ogni gesto è amplificato, ogni sguardo è carico di febbre e allucinazione. Carrière non cerca l’empatia dello spettatore, ma lo mette a disagio; non interpreta Schiele, lo convoca come spettro. Il suo Schiele è un corpo erotico e politico insieme, icona di un’epoca al collasso. In questo senso, l’interpretazione diventa quasi una coreografia del disagio, dell’ossessione, del desiderio irredimibile. Non c’è distanza critica, né biografismo: l’attore è immerso nella visione, e in ciò risiedono il fascino e la radicalità disturbante del suo lavoro.
Mentre EGON SCHIELE: DEATH AND THE MAIDEN (2016) di Dieter Berner restituisce la vertigine esistenziale dell’artista austriaco, incorniciando la vicenda biografica entro una grammatica cinematografica austera e carnale. La messa in scena, dominata da luci fredde e corpi esposti alla voracità dello sguardo, riproduce l’inquietudine dello stile schieleano, più che illustrarla. Il film si emancipa dal biopic convenzionale, disegnando un ritratto emotivo e affilato che interroga il confine tra Arte e scandalo, erotismo e potere. Noah Saavedra affronta il ruolo con una notevole compostezza drammatica, restituendo un’immagine di Schiele che si muove tra fragilità giovanile e volontà incrollabile. Il suo volto affilato, la gestualità trattenuta, quasi cerebrale, suggeriscono un artista sempre in bilico tra l’ansia febbrile della creazione e il peso delle convenzioni che tenta di infrangere. La regia lavora sul suo corpo come fosse una tela: spesso nudo, sempre esposto, e Saavedra incarna uno Schiele che non è tanto scandaloso quanto trasparente nella sua vulnerabilità. Il risultato è una messa in scena priva di manierismi, che evita tanto il feticismo quanto l’agiografia, in favore di un’interpretazione sobria, quasi spiazzante nella sua autenticità.
Egon Schiele è stato uno dei più intensi e controversi protagonisti dell’Espressionismo viennese: sviluppò uno stile personale, spigoloso e radicale, incentrato sul corpo nudo, la sessualità e il tormento interiore. Morì a soli 28 anni, durante la pandemia di influenza spagnola, lasciando un corpus di opere folgoranti per forza emotiva e per l’ossessione quasi anatomica dello sguardo.
Schiele è un soggetto cinematografico affascinante non solo per la sua breve vita e le sue relazioni scandalose, ma perché incarna un nodo irrisolto tra Arte, eros e censura. La sua figura consente al cinema di interrogarsi sul corpo come campo di battaglia simbolico, sulla creazione artistica come trasgressione e sul confine – sempre labile – tra bellezza e perturbazione. Raccontare Schiele è, ancora oggi, un atto politico e poetico insieme. Dal punto di vista cinematografico, Schiele offre una materia visiva e drammaturgica straordinaria: la sua vita si svolge in un’epoca di transizione radicale — la Vienna fin de siècle, appunto — dove la psicanalisi, l’avanguardia artistica e la crisi dell’impero austro-ungarico si intrecciano in un tessuto narrativo denso e stratificato. Le sue opere, intrise di erotismo inquieto e tensione spirituale, forniscono un’estetica già potentemente cinematografica, fatta di corpi deformati, sguardi spogliati e silenzi saturi di significato. Schiele non è solo un personaggio da rappresentare ma un linguaggio da tradurre: la sua pittura reclama una forma visiva che non lo illustri ma lo attraversi, rendendo il film un’estensione sensibile e sensoriale del suo stesso gesto artistico.
Ecco una essenziale selezione di otto opere celebri di Egon Schiele: Autoritratto con alce (1906), La Morte e la Fanciulla (1915), Ritratto di Wally Neuzil (1912), Autoritratto con lanterna cinese II (1912), Donna accovacciata (1914), Nudo femminile seduto con le gambe aperte (1914), Casa con lavanderia al sole (1914), La famiglia (1918), ultima grande opera prima della morte, rimasta incompiuta.
Una settimana – a distanza di 47 anni – quella che ha scritto nascita e morte della pittrice messicana nata il 6 luglio 1907 e scomparsa il 13 dello stesso mese, nel 1954. Sul grande schermo, tra finzione e doc, l’hanno raccontata anche Ofelia Medina, Carla Gutiérrez, Alfred Molina
Nato il 7 giugno 1848, il pittore parigino cresciuto in Perù ha incarnato tensioni etiche ed estetiche ancora attuali: l’artista in fuga dall’Occidente, il desiderio dell’“altro” come sogno e violenza, il peso del colonialismo. Tra gli interpreti sul grande schermo anche Kiefer Sutherland accanto a Nastassja Kinski
La regina dell’Art Déco, figura plastica e autodeterminata, anche protagonista di Tamara. La donna d’oro, co-produzione Svezia-Italia-Finlandia: la pittrice polacca nasceva a Varsavia il 16 maggio 1898
Le vicende del pittore e incisore spagnolo, scomparso il 16 aprile 1828, sul grande schermo con Javier Bardem, Michael Ironside, Stellan Skarsgård, protagonisti per Bigas Luna, Miloš Forman e Carlos Saura con la fotografia satura e pittorica di Vittorio Storaro