Sanaeeha e Moghadam: “In Iran è vietato raccontare la realtà. le donne vivono una doppia vita”

Intervista ai registi de 'Il mio giardino persiano', presentato in anteprima al Festival di Berlino e nei cinema italiani dal 23 gennaio con Academy Two


Con Il mio giardino persiano, presentato al Festival di Berlino 2024, la coppia di registi Maryam Moghadam e Behtash Sanaeeha ha scelto di raccontare in maniera autentica uno spaccato di vita di una donna in Iran, mostrando la sua realtà fra le mura domestiche – un luogo in cui, diversamente dall’esterno, il regime ha minore controllo e le persone riescono a esprimere la propria libertà. Nel film, una donna settantenne di nome Mahin, rimasta sola dopo la morte del marito, invita a casa propria un uomo appena conosciuto per trascorrere una serata in compagnia. Il mondo interiore di Mahin racconta con dolcezza e coraggio il desiderio di libertà del popolo iraniano. Privato e politico – al centro di questo coinvolgente inno alla vita – entrano in collisione quando la protagonista sfida un poliziotto intento ad arrestare delle ragazze che non indossano nel modo corretto l’hijab. Il mio giardino persiano è stato bandito in patria e i due registi sono stati sottoposti a un rigoroso divieto di lavoro e di viaggio (travel ban e working ban), accusati di propaganda contro il regime, diffusione del libertinismo e violazione delle norme islamiche. Il film esce nei cinema italiani dal 23 gennaio distribuito da Academy Two.

Cosa vi ha spinto a raccontare la storia di Mahin?

Maryam Moghadam: Ho pensato a questa storia come a un modo per parlare della vita in tutte le sue sfaccettature: i grandi interrogativi sull’esistenza, come la solitudine, l’invecchiamento, la morte, e quei brevi momenti di felicità che rendono la vita degna di essere vissuta. Per noi è stato naturale farlo attraverso il punto di vista di una donna, perché abbiamo attorno a noi molte donne che ci ispirano.

Behtash Sanaeeha: Raccontare la realtà della vita in Iran diventa inevitabilmente politico, anche senza volerlo: condurre un’esistenza normale, senza menzogne, è praticamente proibito. In Iran viviamo una doppia vita: quella di casa, che in qualche modo riusciamo a controllare, e quella fuori, dove non abbiamo nemmeno la libertà di scegliere come vestirci. Raccontare tutto questo al cinema è vietato, perché mostrare che a casa siamo persone normali – per esempio che beviamo, o semplicemente che non indossiamo l’hijab – è considerato inaccettabile. Abbiamo deciso comunque di accettare le conseguenze e raccontare la verità sulla nostra quotidianità, perché non volevamo più mentire, a differenza di molti film realizzati dopo la rivoluzione.

Così il film è stato bloccato in Iran e voi siete stati sottoposti al travel e working ban… potete raccontarmi del momento in cui è accaduto tutto questo?

Maryam Moghadam: Tutto è iniziato circa 20 mesi fa, verso settembre, quando la Guardia Rivoluzionaria ha fatto irruzione nell’ufficio del nostro montatore. Erano in nove e hanno sequestrato tutti i computer, gli hard disk e i materiali. Hanno visto il film e il giorno dopo ci hanno convocati presso l’ufficio principale della Sicurezza Nazionale, ordinandoci di ritirarlo dalla Berlinale e di fermarne qualsiasi diffusione. Noi abbiamo spiegato che la distribuzione è gestita dai produttori e dai distributori, quindi non era in nostro potere bloccarlo. Si sono infuriati e, due settimane dopo, quando stavamo per partire da Teheran per Parigi per terminare la post-produzione, ci hanno confiscato i passaporti all’aeroporto.

Behtash Sanaeeha: Da quel momento è iniziato il processo contro di noi, che dura ormai da 20 mesi. Abbiamo tre capi d’accusa: propaganda contro il regime, diffusione della prostituzione e del libertinismo (un’accusa ridicola), e violazione delle norme islamiche per aver realizzato un film “volgare”. Attualmente siamo sottoposti a divieto di viaggio (travel ban) e di lavoro (working ban) e stiamo aspettando la prossima udienza presso il tribunale rivoluzionario, che potrebbe confermare pene di vario tipo, incluso il carcere, com’è già accaduto ad alcuni nostri colleghi come Rasoulof e Panahi. Questa è la situazione. Non possiamo viaggiare e non possiamo lavorare. Siamo in attesa di sapere quale sarà la nostra condanna definitiva.

Nel film giocate con generi come la commedia romantica, ma al contempo raccontate con autenticità il mondo interiore di una donna. Come avete composto questa struttura narrativa?

Behtash Sanaeeha: Dall’inizio volevamo essere fedeli alla realtà, non solo superando le “linee rosse” della censura (come mostrare le donne senza hijab in casa), ma anche evitando di cadere in cliché narrativi su amore e desiderio femminile. Essere fedeli alla vita significa mostrarne tutte le sfaccettature, perché la vita non è mai solo felicità o solo tristezza, ma un insieme di momenti – spesso difficili, a volte belli e pieni di gioia.

Maryam Moghadam: Bisogna aspettare e saper cogliere quegli istanti di felicità e farne tesoro, perché sono ciò che abbiamo di più prezioso. Forse, proprio perché la vita ha una fine, riusciamo ad apprezzarla e ad amarla così tanto. Quindi ci è sembrato giusto restituire questa complessità reale, con momenti di solitudine, di morte, di libertà e di speranza.

Com’è stato il lavoro con gli attori sul set, soprattutto considerando le sfide produttive e la situazione complicata in cui vi trovate?

Behtash Sanaeeha: La scelta degli attori è sempre la parte più importante del nostro processo creativo. Stavolta, però, siamo stati fortunati: mentre scrivevamo la sceneggiatura avevamo già in mente i due protagonisti. Per esempio, Lily Farhadpur aveva avuto un piccolo ruolo nel nostro film precedente, Ballad of a White Cow, e sapevamo che aveva il talento giusto per interpretare questo personaggio più complesso. Una volta ingaggiati, abbiamo parlato apertamente delle possibili conseguenze a cui saremmo andati incontro: tutti eravamo consapevoli dei rischi, ma sia gli attori sia noi registi abbiamo deciso di andare avanti lo stesso. Poi abbiamo iniziato un lungo periodo di prove: tre mesi, con sessioni di cinque ore al giorno. In seguito, abbiamo provato anche le scene sul set principale, le posizioni di camera e i movimenti, in modo da arrivare alle riprese ben preparati. Dopo questi mesi, ci siamo trovati davanti “Mahin” e “Farah” (i personaggi) in carne e ossa, e ci siamo sentiti pronti per iniziare le riprese.

Nel film, il giardino ha una forte valenza metaforica, soprattutto in relazione alla vita della protagonista. Potete parlarmi di questo simbolismo?

Behtash Sanaeeha: Sì, la casa e il giardino per noi sono come un personaggio a sé, dotato di un significato profondo. In Iran, il governo non ha molto controllo all’interno delle case, mentre all’esterno ogni libertà è repressa. Perciò la casa non è semplicemente un posto dove vivere e dormire, ma un luogo di libertà – per quanto piccola, è l’unico spazio in cui possiamo davvero essere noi stessi. Nel film la protagonista dice: ‘Se me ne fossi andata dall’Iran con i miei figli, avrebbero potuto occuparmi la casa’, perché in effetti le case qui non hanno documenti di proprietà così certi e il governo può appropriarsene. È la sensazione che viviamo: si sono presi tutto, tranne i nostri spazi privati, e dobbiamo rimanere qui per riprenderceli.

Maryam Moghadam: Inoltre, nella letteratura persiana, il giardino (in persiano “paradiso” deriva proprio da un termine che indicava l’idea di giardino recintato) è un simbolo di vita, di felicità e di armonia. Quindi ha un valore quasi sacro, che abbiamo voluto portare anche nel film come metafora dell’Iran stesso.

Nonostante la difficoltà della vostra situazione, sentite di poter essere ancora ottimisti per il futuro degli artisti liberi in Iran?

Behtash Sanaeeha: Assolutamente sì. La nuova generazione in Iran, comprese le artiste e gli artisti, è molto coraggiosa e ha una grande determinazione nel voler cambiare le cose. Le donne, in particolare, sono il cuore del movimento “Donna, Vita, Libertà” e stanno lottando con grande forza per i propri diritti. Vogliono un cambiamento reale, non solo di facciata, e pensiamo che riusciranno. Anche i registi e gli artisti in generale stanno cercando di dare il loro sostegno, nonostante i rischi che tutti corriamo. Siamo convinti che questa nuova generazione, con l’aiuto e il sostegno delle donne, riuscirà a portare un cambiamento presto. Ci crediamo davvero.

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23 Gennaio 2025

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