‘Reinas’, la speranza arriva da chi non ti aspetti

Coming of age, appartenenza e genitorialità nell’opera della regista peruviano-svizzera Klaudia Reynicke in sala dal 15 maggio, candidata all’Oscar 2025 per il Miglior Film Internazionale. L’intervista


Presentato in prima mondiale al Sundance, Miglior Film della sezione ‘Generation’ alla Berlinale 2024, Premio del Pubblico al Festival di Locarno e candidato dalla Svizzera all’Oscar 2025 per il Miglior Film Internazionale, il 15 maggio arriva finalmente al cinema Reinas, diretto della regista peruviano-svizzera Klaudia Reynicke. Nel cast Abril Gjurinovic, Luana Vega, Gonzalo Molina, Jimena Lindo e una delle muse di Pedro Almodóvar, Susi Sánchez.

Dopo Il nido e Love Me Tender, è il terzo lungometraggio della cineasta, classe ’76, già affermata documentarista. Ambientato a Lima all’inizio degli anni ’90, Reinas racconta una storia per molti aspetti autobiografica, che riflette la profonda crisi politica del Perù di quegli anni, fra crisi economica, inflazione alle stelle, attentati e tensioni sociali, a seguito del golpe dell’allora presidente Fujimori. Il tutto attraverso il ritratto intimo di due sorelle e la crescita del rapporto con il loro padre, che si rafforza subito prima che le bambine lascino il Paese – come toccava a molti allora – per trasferirsi negli Stati Uniti. Nei giorni scorsi il film è stato presentato anche a Roma, nell’ambito del festival ‘La Nueva Ola’, occasione in cui abbiamo incontrato la regista.

 

Esilio, appartenenza, sradicamento. E tanto altro. Come è nata l’idea di questo film, e quanto c’è di autobiografico.

Io sono andata via dal Perù a dieci anni con mia mamma, per andare a vivere nella Svizzera francese. A diciassette abbiamo raggiunto il resto della famiglia peruviana che si era spostata negli Stati Uniti, perché mia madre voleva assolutamente stare con sua madre, le sue sorelle e gli altri, ma dopo otto anni io ho preferito tornare in Europa, avendo la doppia nazionalità, svizzera e peruviana. Eravamo partite da Lima nel 1986, ma i primi anni, almeno fino al 1991, appena mia madre poteva ritornavamo sempre, perché lei aveva una nostalgia terribile. La differenza è che io sono figlia unica, ma i miei ricordi sono proprio quelli che vanno dai 10 anni ai 15, come l’età delle due sorelle del film, Lucia (Abril Gjurinovic) e Aurora (Luana Vega). Era sempre una ripartenza, un distacco, anche se già dalla seconda volta almeno conoscevo il posto dove sarei andata. Sono stati anni in cui sono cresciuta con i blackout, con gli attentati sempre più frequenti e pericolosi: prima degli anni ’80 la cosa era limitata alle zone fuori città, poi piano piano si sono intensificati, non solo firmati da Sendero Luminoso, ma anche da altri gruppi, come Tupac Amaru e altri movimenti. Per questo nel ‘91 anche il resto della nostra famiglia ha lasciato il Paese per gli Stati Uniti, e noi nel ’95 li abbiamo raggiunti in Florida. Quindi sì, c’è tanto di me nel film, ma non so se è proprio la mia storia, certamente è la storia dei miei sentimenti. La partenza a dieci anni con mia madre è quella ovviamente, ma mio padre, ad esempio, io non lo vedevo più da quando avevo cinque anni, quando lui era emigrato negli States. Però devo dire che quando sono andata anch’io a vivere là e l’ho rivisto, ho trovato una persona molto simile a Carlos (Gonzalo Molina), il mio protagonista, molto creativo. Insomma, dentro di me avevo questa voglia di raccontare la mia storia, ma non ripercorrendola esattamente, piuttosto in un modo in cui a tutti do l’opportunità di ‘chiudere’ qualcosa. È un film che apre alla speranza, in cui Carlos alla fine impara cosa vuol dire essere padre, che la responsabilità può essere amore, così come quella stessa firma è amore: perché se da un lato lo porta a uno stacco, a una separazione, quel che lui guadagna con quella firma è ritrovare il senso della famiglia, che prima non aveva.

Parliamo del casting. Avete provato tante bambine?

Abbiamo fatto il casting a Lima, ne abbiamo viste davvero tantissime. Mi mandavano i tape, decine e decine, forse centinaia, perché abbiamo iniziato prima del covid, poi il Perù, che è stato uno dei Paesi più colpiti del mondo dalla pandemia, si è chiuso per due anni. Poi subito dopo abbiamo ripreso, e di colpo ho visto questa bambina: la piccola Abril, che interpreta Lucia. Finalmente era qualcuno di reale, quel che lei dice è credibile. Perché tutte le bambine che avevano esperienze precedenti in pubblicità, o in telenovelas, recitavano. E io non potevo lavorare su quello. Invece di Abril mi sono innamorata subito, e poi anche della grande, Luana, la figlia del coproduttore peruviano, che ha una naturalezza pazzesca. In loro il talento già c’è, ed è stato davvero bello lavorare con loro, che sono riuscite a tirarlo fuori.

 

Come è stato lavorare con due ragazzine su temi tanto ‘adulti’?

Girare con delle bambine, con bambini in generale, implica un tipo di direzione completamente diversa. Io, almeno, non posso dirigere i bambini come gli adulti. È impossibile. Con i bambini infatti si tratta di un rapporto di fiducia, mentre con gli adulti è anzitutto un rapporto ‘contrattuale’, poi magari si va d’accordo, o magari no… anche se normalmente devo dire di sì. Con i bambini, invece, è dall’inizio che deve esistere qualcosa: una sorta di contratto psicologico, una loro fiducia che io devo per forza di cose conquistare, quindi si va piano piano. Con queste bambine ad esempio abbiamo parlato molto dei personaggi, ma abbiamo parlato tanto anche di loro stesse. Abbiamo giocato tantissimo, prima delle riprese ci siamo viste più volte, e sul set avevamo una coach che continuava a giocare con loro, fare esercizi, quando io ero impegnata con il resto delle scene. Ma quello che ho vietato alla coach era di farle lavorare alla sceneggiatura del film, perché volevo che loro capissero ‘l’essenza’ di quello che dovevano dire, interpretare, non che imparassero meccanicamente i dialoghi. Poi, quando eravamo pronte, magari un giorno prima, dicevo loro di imparare i dialoghi un po’ come una canzone, sulla quale poi avremmo lavorato insieme. Ma solo dopo che avevano capito ‘il senso’ di quello che avrebbero detto in scena. Infatti, ad esempio, il ‘patto’ finale lo hanno inventato loro: o anche l’esplosione della rabbia di Aurora per il tradimento della piccola, è stato tutto farina del suo sacco, perché aveva capito quello che era importante trasmettere, al di là delle cose che dicevano, ovvero la ‘loro’ vera rabbia quando si trovano di fronte a una sorella o a un’amica che rompe un patto. È un lavoro molto diverso da quello che faccio con gli adulti, perché coi piccoli bisogna lavorare con l’istinto… e alla fine anche la mia esperienza nel documentario mi riporta lì, all’istinto: quindi ad avere pazienza, osservare, e seguire. Non soltanto dirigere.

Ci sono diverse generazioni, almeno tre, che nel film si confrontano con il tema dell’esilio: la storia non è solo un ‘romanzo di formazione’ che riguarda le bambine, anche se loro ne sono il fulcro.

Proprio per questo il film ha diversi punti di vista, diverse letture: c’è quello delle bambine, di 10 e 14 anni, che solo scappando di casa e una volta fermate dai militari, che con la scusa del terrorismo malmenano e imprigionano ogni persona fermata, e scoprono da vicino la loro violenza anche negli sguardi e nelle parole, capiscono che non è un gioco quel che accade fuori, e che allora c’è una ragione per cui la madre, Elena (Jimena Lindo) vuole partire, perché anche se vengono da una famiglia benestante, lì non possono avere un’infanzia normale… Poi c’è la generazione della madre, appunto, che è proprio lo specchio dell’adulto che si confronta con la realtà, e poi quella della nonna (Susi Sánchez), che resterà lì, ma che ha un suo modo di fare molto speciale, e vede tutto questo con la ‘distanza’ e la saggezza che le permette l’età.

 

“Con i piedi per terra e gli occhi che guardano al cielo, tutto è possibile”, dice Carlos alla fine. Il tema della genitorialità vede centrale la sua figura, che solo apparentemente è un po’ bislacca, inaffidabile, mentre incarna per le bambine il sogno, la libertà  la speranza. È lui che insegna loro a non aver paura, a gioire al massimo della vita.

Sì, è vero, le bambine sono le protagoniste ufficiali, ma è Carlos il protagonista “del cuore”. C’è tanto in quest’uomo che… anche lui è un po’ uno specchio di quel che accade nel Paese, che sta vivendo un momento molto complesso, con il crollo della sua economia e una profonda crisi sociale e politica. Ma in un Paese così sofferente si possono ancora vivere momenti meravigliosi, perché c’è la gente, la sua cultura e tutto il resto: e il personaggio di Carlos ci dice proprio questo: sì, sto crollando, sto affogando, ma c’è la speranza, come dice lui in quella frase alla fine. È quello il messaggio, se ce n’è uno, del film, anche se io non ho mai voluto dare né una lezione né una morale, affinché lo spettatore ci trovi qualcosa piuttosto che qualcos’altro: ma magari un po’ di speranza sì, e quella si arriva soprattutto attraverso Carlos. Quando uno fa un film non sa esattamente quello che vuole: si inizia con un’idea e si finisce con un montaggio, e magari da una cosa all’altra passano quattro anni. Se si ritrova quell’idea alla fine del montaggio, allora è vera magia: io l’ho ritrovata, e sono felice che se c’è un messaggio che passa, sia quello della speranza.

 

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14 Maggio 2025

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