“In Italia si contano circa 250 titoli, qualcosa senza precedenti dagli anni ’60… mi sento di dire che si sia puntato sulla quantità; il numero massiccio di produzioni purtroppo è andato a danno della qualità”, queste sono solo alcune delle frasi con cui Alberto Barbera ha commentato la selezione ufficiale della 79ma Mostra del Cinema di Venezia in un incontro riservato alla stampa (qui il nostro articolo).
Il direttore artistico del più importante festival cinematografico italiano ha voluto sottolineare alcune conseguenze di quello che lui stesso ha definito “uno sforzo di intercettare il flusso di finanziamenti”. Un punto di vista forte, ma di certo non privo di consapevolezza per un professionista della sua esperienza che, come rivela Riccardo Tozzi, “è l’unico che ogni anno ha una visione precisa del cinema italiano perché vede più film, ha una grande sensibilità ed è di grande onestà intellettuale”.
Il fondatore di Cattleya, ex presidente di Anica, si è detto abbastanza d’accordo con il pensiero di Barbera: “prendo sempre con massima considerazione tutto quello che dice. Io ho la sua stessa impressione, che ci sia una specie di schizofrenia. Perché mentre la produzione seriale e le fiction vanno forte, con un grande pubblico nazionale e internazionale, il cinema italiano sta sbandando. La quantità di film è impressionante e, buoni o brutti che siano, sembrano tutti concepiti a prescindere da un’idea di pubblico”.
“Quando uno prende la mira può sbagliare, ma se uno non prende la mira non ci azzecca mai! – ironizza Tozzi – In questo momento mi sembra che siano saltati i meccanismi di creazione, per cui chiunque può fare qualunque cosa e il risultato è questo, cioè che il cinema italiano ha perso il pubblico. È importante riconoscere l’esistenza del problema. Se diciamo che tutti i film sono bellissimi, che il pubblico non viene per il covid e poi ci diamo tanti premi tra di noi, la situazione non cambia. Se invece, grazie anche a persone illuminate come Alberto, si guarda in faccia la realtà, si può iniziare a lavorare e si capisce come individuare dei meccanismi di selezione che siano volti a mettere in contatto la creatività col pubblico.
“Noi facciamo parte dello spettacolo e senza il pubblico i nostri artefatti non servono a niente. – conclude Tozzi – Non è una visione commerciale, ce l’aveva anche Shakespeare, quando una cinematografia come la nostra fa 250 film e non ne piazza manco uno tra i primi venti ha perso il pubblico ed è una situazione di sbando”.
Francesca Cima, cofondatrice di Indigo Film, ha una visione leggermente più ottimistica e ci tiene a contestualizzare il problema: “il combinato di pandemia e l’arrivo delle piattaforme ha fatto sì che, a livello di mercato del lavoro, di risorse e di persone impegnate nell’industria, ci fosse un grande aumento, una sorta di boom. I tempi sono cambiati e non c’è più l’idea di fare un percorso con una casa di produzione, cercando di capire quale sia il film giusto e quale no, si tende a massimizzare il tempo”.
“Non penso che, visto che ci sono le risorse, ora siano arrivati gli sciacalli che le cercano, – continua Cima – è tutto un insieme di cose, c’è una sorta di euforia. Io cerco di trovare gli aspetti positivi, ad esempio sono nate tantissime opportunità di formazione. Il lavoro intorno al cinema è diventato un tema, ed è importante che molti giovani si siano avvicinati a questo mestiere: c’è un interesse da parte loro e c’è interesse perché c’è lavoro. Tutto questo è molto positivo, ma c’è un aspetto indesiderato, ovvero che si è creata l’illusione che sia facile fare un film e che i finanziamenti si trovino facilmente. Di conseguenza si sono forzati molto i tempi di produzione”.
“Non ho colto nelle parole di Barbera una critica ma uno stimolo – afferma Nicola Maccanico, ad di Cinecittà – C’è senza dubbio bisogno di film importanti, il sistema audiovisivo italiano mette a disposizione del mondo produttivo nazionale strumenti adatti ma è demandato alla qualità dei produttori la capacità di costruirli e in questo senso dobbiamo continuare ad alzare l’asticella”.
“Ma quantità e qualità non si escludono – conclude Maccanico – Perché un sistema cinematografico funzioni c’è bisogno di grande varietà di prodotto ma anche di avere picchi di assoluta rilevanza, ancora di più in un mercato globale in cui la competizione ormai travalica i confini nazionali. Abbiamo grandi talenti, grandi capacità produttive e un ecosistema molto attrattivo, sta a noi giocare al meglio le nostre carte. A conferma di tutto ciò la presenza italiana alla Mostra di Venezia dimostra la capacità di costruire film decisamente rilevanti a livello internazionale”.
Sull’argomento portato da Barbera si è espresso anche il regista e attore Michele Placido, intervistato nell’ambito del Ventotene Film Festival: “Rispetto il suo pensiero, ci mancherebbe ma forse c’è bisogno di una riflessione più approfondita per un problema che ormai è trentennale. Non voglio avanzare una critica, ma è una semplice osservazione: sono abbastanza scettico. Quest’anno a Venezia ci sono molti film belli e interessanti e gli italiani in concorso sono cinque. Non sono pochi, e questo contraddice in qualche modo il pensiero del direttore Se poi i festival diventano passerelle per influencer o gare a chi ha la coscia più scoperta, bisogna ragionare. Ai giovani – escludendo gli addetti ai lavori – non importa di Cannes o Venezia. Se il festival è un manifesto, allora bisogna anche fare in modo che sia un luogo di riflessione per cambiare le cose.” (In questo articolo la dichiarazione completa)
Si schiera dalla parte del direttore artistico, infine, Sergio Rubini, nella nostra intervista al Giffoni Film Festival: “Ha ragione quando dice che si fa più per quantità. Io distinguo, però, tra produttori e artisti. Perché i primi fanno film per i numeri, anche per via del tax credit. Gli attori e i registi li fanno perché hanno la necessità di esprimere la propria idea sul mondo, perché vogliono raccontarsi”.
E' possibile iscriversi per team di nazionalità italiana composti da registi alla loro opera prima o seconda, associati a produttori che abbiano realizzato almeno tre audiovisivi
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