MILANO – Un appartamento vuoto. La macchina da presa lo esplora, sinuosa si muove dentro e fuori le stanze, guardando dalle finestre, salendo e scendendo le scale. La soggettiva fa immergere sin dal primo istante dentro lo spazio che si rivela poi la scena del tutto, con un unico vero esterno, estremo, infine spartiacque della vicenda. La soggettiva di chi sia non si sa, dunque lo spettatore s’incuriosisce e s’inquieta nel non capire chi siano gli occhi che gli mostrano.
Per Presence – in anteprima al Noir in Festival, dopo il passaggio al Sundance – Steven Soderbergh fa “una scelta della cinepresa che è una primizia”, come spiega Giorgio Gosetti, direttore del Noir presentando il film: “è il suo primo horror, con un tratto personale, un concetto proprio diverso: non c’è sangue, per esempio” ma c’è, appunto come accennato dal critico, una macchina a mano perenne, proprio per restituire la sensazione dell’essere infiltrato da parte di qualcuno/qualcosa, della penetrazione dentro un’esistenza, famigliare.
Sì, perché protagonista del film sono i Payne, Rebecca (Lucy Liu) e Chris (Chris Sullivan) i genitori, con gli adolescenti Tyler (Eddy Maday) e Chloe (Callina Liang), soggetto che sin dalle prime sequenze s’intuisce essere il perno della vicenda, sin da quel suo primissimo contatto – o attrazione fatale – per l’antico specchio che domina il salotto, di quella casa che stanno per acquistare e di lì a pochissimo abitare. Se il crescere delle sequenze potrebbe evocare l’immaginario della casa infestata dagli spiriti, per cui il concetto non è assente, Soderbergh però fa un lavoro molto più sofisticato, ribaltando l’archetipo dello spirito maligno tra le mura domestiche, e afferendo allo stesso un profilo completamente altro.
Un’altra “primizia” dell’estetica di Soderbergh, oltre alla macchina a mano, lontana dal rischioso effetto “mal di mare”, perché davvero fatta muovere come una coreografia tra le stanze della casa, è la scelta – marchio di fabbrica di questo film – di usare, ripetutamente, stacchi espliciti, di brevissima durata ma altrettanto percettibile, che vanno a nero, tra una sequenza e l’altra: se lo specchio è riflesso, dunque sguardo sullo sguardo, gli stacchi potrebbero quasi essere palpebre che a intermittenza si chiudono e si schiudono, così a voler mostrare, tanto a voler celare, ma le palpebre di chi? Chi è la presenza? Nadia, forse, così sospetta Chloe: la sua migliore amica, venuta a mancare – come altre coetanee – per soffocamento, si dice… .
Chloe percepisce… qualcosa, non sempre vede quello che lo spettatore vede: libri si chiudono e si muovono, pagine si sfogliano, astucci si spostano: c’è, dunque, anche qualche piccolo istante di poetico fantasy nell’immaginario di questo Soderbergh, ma lei, Chloe, dapprima resta spaventata quanto affascinata dal mistero, tanto che – a seguito di un sobbalzo palese – trova la scusa di aver creduto d’aver visto un topo… impossibile in quel lussuoso appartamento, pur di non confidare quella sua sensazione…
La famiglia Payne è una micro società, e come tale composta da personalità a tratti reciprocamente disarmoniche: se la mamma è una donna volitiva, che per il trauma della figlia non si preoccupa, ma ripete serva “solo tempo”, Tayler altrettanto manca di empatia e sentenzia su Nadia, “l’amichetta drogata”; il papà, invece, empatizza con l’isolamento che Chloe pratica quasi assoluto, così forza la mano e fa arrivare in casa una chiaroveggente, Lisa (Julia Fox), che conferma una presenza, seppur confusa ma legata a Chloe, e che sembra essere lì per “fare qualcosa…”.
Il film procede per la quasi totale interezza (85’) senza iniettare paura, ma depositando qua e là dettagli che aprono il ventaglio sulle possibilità sul nucleo del male: indubbiamente il nero si sfama nell’interno della casa, ma appartiene al dentro, o al fuori? E infatti, Soderbergh, gioca di contrasto, inserendo un elemento altro al contesto famigliare, Ryan (West Mulholland), amico di Tyler, angelico adolescente dallo spirito misterioso e inquietante, la cui candida bellezza spazza via la possibilità di un buio, o forse no; insomma, un tassello ancora non leggibile nel suo profondo s’aggiunge al quartetto dei Payne.
Finché il campo (l’appartamento) non si libera, Rebecca e Chris partono, Tayler e Chloe restano soli qualche giorno ed è qui che l’invisibile, qualcosa di trasparente, esattamente come trasparente è la presenza, si manifesta nella sua malignità. La presenza del titolo, seppur nella sua assenza fisica, si fa qui concreta: l’horror, certo, non è a lieto fine per sua natura, e nemmeno quello di Steven Soderbergh, che però timbra questo genere con la propria personalità, facendo uscire dalla sala con un’ennesima idea possibile di cinema orrorifico, decisamente sovvertito nel lessico rispetto al prevedibile.
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