Nel giorno di San Valentino del 1900 le ragazze di un collegio femminile si recarono in gita sulla formazione vulcanica nota come Hanging Rock: alcune non fecero mai ritorno.
E’ questa la premessa di Picnic a Hanging Rock, che compie cinquant’anni e torna in sala grazie alla Cineteca di Bologna con il suo progetto ‘Il Cinema Ritrovato. Al cinema’, in collaborazione con I Wonder Classics, la divisione di I Wonder Pictures dedicata alla riscoperta dei classici d’autore. Si tratta della versione director’s cut nel restauro in 4K del film del regista australiano Peter Weir. Allora trentenne, sconosciuto e con pochi lavori al suo attivo, arrivò sulla scena mondiale all’improvviso, sconvolgendo gli spettatori di ogni latitudine, con questo audace thriller, misterioso e misterico, che portava echi di culture ancestrali e lontane ma anche una precisa disamina della società vittoriana e della repressione sessuale che la contraddistinse, specie verso le donne dei ceti più alti. Weir è poi divenuto famoso, come sappiamo, con titoli come L’attimo fuggente, The Truman Show, Master and Commander, ha vinto una marea di premi (Bafta, Efa, Golden Globes), è stato sei volte candidato all’Oscar, l’anno scorso ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera a Venezia. Insomma, un autore consacrato. Eppure Picnic a Hanging Rock, nonostante tutta l’acqua passata sotto i ponti, resta un capolavoro e conserva intatto tutto il suo fascino.
A lungo venne alimentato l’equivoco che la storia raccontata sia vera e realmente accaduta. In realtà la vicenda, ispirata all’omonimo romanzo di Joan Lindsay, ambientata in Australia nel giorno di San Valentino del 1900, è di pura e cristallina fantasia. La scrittrice insomma inventò tutto di sana pianta, persino un articolo di giornale che compare alla fine del libro come “prova” della veridicità.
Il 14 febbraio 1900 non era un sabato, ma è un sabato il San Valentino della finzione, il giorno in cui le studentesse di un collegio femminile per ragazze di buona famiglia, l’Appleyard College, gestito con mano ferma da una rigida direttrice, partono in gita verso un luogo roccioso, avvisate dei pericoli che potrebbero incontrare, in particolare serpenti velenosi, e invitate ad astenersi da comportamenti da maschiaccio.
Le fanciulle in fiore, tutte vestite di bianco virginale, sono scortate da due insegnanti. Quattro di loro ottengono il permesso di allontanarsi per esaminare più da vicino le formazioni rocciose che sembrano trasmettere uno strano magnetismo. Miranda, Marion, Irma e Edith si incamminano per un cammino impervio, la loro dovrebbe essere una breve ascensione sulla roccia, ma non sarà così. Passano davanti al giovane Michael Fitzhubert, nobile inglese che si trova in vacanza e sta facendo a sua volta una scampagnata con il domestico Albert.
L’escursione non va secondo i piani, in particolare la robusta Edith non ce la fa a salire e viene presa da una crisi isterica. Torna indietro, mentre le altre tre proseguono verso un destino sempre più incerto, intanto anche l’insegnante di matematica, Greta McCraw, scompare.
Il tema della sparizione – ma anche quello della perdita dell’innocenza – è trattato sapientemente dal regista, che pur disseminando la storia di indizi e segnali non permette allo spettatore di capire cosa sia realmente accaduto, piuttosto lo conduce in una sorta di labirinto mentale, lo ipnotizza. Così pure le ricerche nel film risultano labirintiche e vane. Ciò che rimane delle donne scomparse nel nulla è un brandello di pizzo bianco. E il cadavere di una giovinetta morta suicida.
Guido Fink ha definito giustamente il film “uno studio sulla repressione fatto di atmosfere sospese e perturbanti, di una natura abbagliante e misteriosa, di un’inquietudine indicibile sapientemente costruita attraverso immagini e colonna sonora”. In particolare i brani di Gheorghe Zamfir, per flauto di pan e organo, sono capaci di evocare il sentimento di una frattura incolmabile tra civiltà umana e natura selvaggia e l’aggettivo “perturbante” nell’accezione freudiana di “ritorno del rimosso” è quello che meglio si attaglia al film nel suo complesso.
“Quel che più stupisce – continua Fink – in un film basato sul vuoto, sull’assenza e la deliberata cancellazione è la ricchezza quantitativa di segni, di chiavi che il film stesso dissemina, quasi a illuderci di volerci portare nel cuore del labirinto. La violenza latente, in questo film che è anzitutto uno studio sulla repressione, minaccia di esplodere quando il reale non offre più alcun segno, alcun appiglio, come la superficie scabra di Hanging Rock: sarà la scena in cui il sergente, avvertendo l’atmosfera di linciaggio incipiente, rimanda a casa i passanti, o quella in cui Irma, l’unica superstite, ritorna a scuola, e per il suo silenzio viene aggredita dalle altre nella palestra. Al contrario, culmine e cuore segreto della vicenda saranno le scene in cui il ragazzo inglese, Mark, si reca sulla montagna per cercare anche lui le ragazze, e lascia labili segnali del suo passaggio, come nella fiaba di Pollicino, per poi trasmettere segretamente, nel pugno serrato, un segno privilegiato all’amico Albert: un frammento di pizzo dal vestito di Irma”.
Una voce fuori dal coro tra le recensioni entusiaste fu quella del critico Giovanni Grazzini che definì Weir “uno stregone di sublime ruffianeria” e aggiunse “questo regista galeotto sa vendere la sua merce con la scaltrezza di chi allaccia il pubblico con corde impalpabili”. Ma da quelle corde non ci siamo ancora sciolti.
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