Sembra una storia incredibile quella del pianista jazz Michel Petrucciani (1962-1999) che, a dispetto del suo devastante handicap, ha avuto una vita breve ma intensa, ricca di successi, donne e anche di un figlio, che purtroppo ha ereditato la sua malattia. E’ l’osteogenesi imperfetta, meglio conosciuta come “sindrome delle ossa di cristallo’, che impedisce a Petrucciani di crescere oltre il metro e lo obbliga a muoversi in braccio o con le stampelle. Una storia raccontata dal documentario Michel Petrucciani, realizzato da Michael Radford – suo Il postino con Massimo Troisi vincitore di un Oscar per le musiche di Luis Bacalov – presentato fuori Concorso come evento speciale.
Il documentario, in uscita il 22 giugno in Italia con PMI Distribuzione e con una partecipazione produttiva del MiBAC, restituisce l’autentica forza della natura che caratterizza questo pianista francese, consapevole che il tempo della sua vita è limitato e che dunque non va sprecato, ma vissuto appieno. “Tutti mi hanno detto che lui li stregava con un incantesimo. Lo stesso è accaduto anche a me sebbene non l’abbia conosciuto – dice il regista – Michel era nato con un pesante handicap fisico, ma possedeva anche due doti: una per la musica, l’altra per la vita. Non avevo un preciso punto di vista sul materiale quando ho iniziato a lavorarvi. Non volevo avere nessun pregiudizio. Del resto nei difetti di ciascuno tu puoi trovare le sue vere qualità umane. E Michel di sicuro ne aveva di difetti”.
La proposta di un documentario arriva da Les Films d’Ici, Radford san ben poco di Petrucciani, ma il personaggio subito lo affascina “non solo perché alto meno di un metro e dotato di talento, ma perché in maniera metaforica simboleggia la lotta dell’uomo che accetta la condizione di partenza e vive la sua vita appieno senza rimorso e rimpianto”. Il sogno di Petrucciani era di essere normale come tutti gli altri e allora non solo ha amato le donne ma anche regolarmente le ha tradite. “L’ho trovato molto umano. Non mi interessa giudicarlo ma mostrarlo per quello che era, con affetto”.
E Radford ci restituisce, con i tempi del lungometraggio, la sfida vinta da quest’uomo grazie alla passione per la musica comunicatagli da una famiglia di musicisti semiprofessionisti amanti del jazz. A tre anni Michel già conosce le melodie di Miles Davis, Django Reinhardt e Art Tatum. All’età di quattro vede Duke Ellington in tv e subito chiede in regalo un pianoforte; ne riceve uno giocattolo dai genitori e subito lo distrugge. Ne vuole, e lo avrà, uno vero, rivelandosi ancora adolescente uno straordinario talento musicale che punta al successo grazie a una volontà e a una personalità uniche.
A 13 anni è uno straordinario improvvisatore jazz e con la sua prima esibizione pubblica comincia una stupenda carriera professionale, all’inizio con il trombettista Clark Terry. L’incontro con il batterista Aldo Romano lo porta a Parigi dove registra ben 5 album tra il 1981 e il 1985. Ma la Francia non gli basta e sbarca negli Usa dove si ritrova al fianco di leggendari musicisti jazz quali Roy Haynes, Jim Hall, John Abercrombie, Wayne Shorter, Joe Henderson, Joe Lovano e Dizzy Gillespie. Una carriera frenetica, nonostante la disabilità che lo consuma, e a chi gli dice di prendersi una pausa, dopo i 228 concerti nel solo 1998, così risponde “Ho vissuto più di Charlie Parker e questo non è male”. Muore per una polmonite a New York nel gennaio 1999.
La ricerca dei materiali video è stata lunga. Radford era interessato al lato umano delle persone piuttosto che a quello informativo della storia. “A tutti coloro che vediamo nel mio film ho chiesto se avevano filmati di repertorio, amatoriali, documenti privati. Essenzialmente grazie a loro ho potuto recuperare nel documentario quelle sequenze d’archivio. Una ricerca che ha poi richiesto 6/7 mesi di montaggio ed edizione”.
Il regista non avendo avuto la possibilità di conoscere e intervistare Petrucciani quand’era vivo, ha privilegiato le persone che l’hanno frequentato. “Certo molti hanno preferito non parlarmi di lui per varie ragioni, ma alla fine ho raccolto numerose testimonianze, più di trenta. Ho scelto di non dare loro un nome, perché alla fine è irrilevante”.
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