PESARO – Il primo figlio, esordio alla regia di lungometraggio per Mara Fondacaro, ha avuto la sua premiere ieri sera, domenica 15 luglio, in Piazza del Popolo. Il film, un thriller a tinte fosche con incursioni nel body horror e nel soprannaturale, vede come protagonisti Ada e il compagno Rino, i quali si trasferiscono in una villa immersa nella natura, mentre la donna è incinta del loro secondo figlio. Ma con l’avvicinarsi del parto, Ada comincia a rivivere il dolore per la perdita del primogenito, Andrea, iniziando a credere che sia ritornato dall’aldilà per impedire la nascita del fratello. Il senso di colpa dovuto alla morte incidentale del bambino, nella quale lei stessa è stata coinvolta, spinge la giovane madre sull’orlo della follia. La difficile necessità di lasciare andare il passato, costringerà Ada a delle scelte dolorose.
Fondacaro ha frequentato il corso di laurea di Fotografia – Cinema e Televisione presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli e si è laureata in sceneggiatura al Centro Sperimentale di Cinematografia. Nel 2022 ha partecipato alla Berlinale in qualità di sceneggiatrice con il cortometraggio Le variabili dipendenti, vincitore del David di Donatello l’anno successivo.
Mara Fondacaro ammette di non essere stata ispirata dal capolavoro di Alfred Hitchcock, Rebecca – La prima moglie: “Si tratta di un film che io amo alla follia, però non c’è stata per niente una correlazione. La trovo molto interessante in realtà, perché è molto simile come storia. Le influenze principali che ho avuto sono state, in realtà, relative a questo nuovo modo di fare horror, che viene chiamato ‘elevated horror’. Mi riferisco a film come Babadook o alla serie di Mike Flanagan, come The Haunting of Hill House. La mia influenza principale è anche uno dei film che ho studiato e che amo tantissimo: Rosemary’s Baby. Parte comunque da un aspetto simile: fin dove è disposta a spingersi una madre per un figlio. In quel caso per l’anticristo, qui per un figlio che mette in pericolo l’altro in arrivo. Infine A Venezia… un dicembre rosso shocking, che ho visto mentre preparavo il film. È stato involontario, ma ci tengo a citarlo perché mi ha colpita molto”.
Benedetta Cimatti, che veste il complesso ruolo di Ada, ha ammesso di essere partita dalla sceneggiatura per lavorare al meglio sulle sfumature contenute all’interno di questa versione della maternità: “Era già stata scritta benissimo da Mara, che è un punto di partenza fondamentale. Poi da Rosemary’s Baby, che è stata, si potrebbe dire, la nostra bibbia. Me lo sono rivista tipo dieci volte. È stato anche un punto di ispirazione, oltre a quello che mi aveva già detto Mara. Un aspetto interessante è che Ada è molto diversa da me. Ho giocato questo personaggio sul mantenere sempre una freddezza, proprio il fatto di non sentire. Io invece sono estremamente emotiva, mi faccio rossa facilmente, quindi è stato molto difficile. In questo caso però è proprio vero che quando uno perde gli affetti, diventa completamente asettico, freddo”.
Il personaggio di Rino, invece, è stato affidato da Fondacaro all’attore romano Simone Liberati, il quale ha ammesso di aver capito subito di essere adatto a metterlo in scena: “Leggendo ho capito che avrei potuto dare un contributo. Ho sentito subito di aver capito questo personaggio, e lo dico con un po’ di presunzione. Per il resto, in realtà, è stato tutto un affidarsi: alla regista e agli altri attori. È stato come fare una jam session con loro, cercando di trovare la chiave, anche se non sapevamo esattamente quale fosse all’inizio. Off screen mi sono divertito da morire, ma in fin dei conti anche in scena: io trovo gusto nel lavorare anche alle scene drammatiche. Per me sono un invito, perché se sono belle, sono sempre un invito per gli attori. Quindi ho trovato tanto piacere a lavorare su questo film. Spero che ricapiti.”
Infine, Astrid Meloni, che interpreta Paola, un’amica di famiglia, o meglio, di Ada. “Il mio personaggio è un po’ un tramite con il mondo del soprannaturale, diciamo che fa accadere delle cose fuori dal comune. La cosa più interessante per me è stata soprattutto relazionarmi col soprannaturale, con ciò che va oltre la nostra capacità razionale di guardare la realtà. È un po’ come il gioco che fanno i bambini, o che fanno anche gli attori: il gioco del credere. Come si fa con il gioco simbolico: alzo la mano, l’avvicino all’orecchio e credo, faccio finta, che sia un telefono. Gli attori devono fare questa cosa, che a volte arriva a un livello ancora più alto. A volte penso di essere un’impiegata, a volte un medico, e ho a che vedere con cose più grandi di me. Questo rende il processo ancora più esaltante e divertente, perché bisogna trovare modalità anche fisiche o espressive, per interpretare qualcosa a modo proprio, per non cadere nel cliché, per non ispirarsi a cose già viste. Si deve trovare una specie di preghiera interiore per arrivare a quella cosa lì”.
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