Pesaro 61, Daniele Luchetti festeggia i trent’anni de “La scuola”

Il regista ha ripercorso la sua carriera, sottolineando l’importanza dell’affidamento all'esperienza diretta in fase di scrittura, la crisi del cinema di genere e la necessità di libertà autoriale: "Ogni volta ricomincio"


PESARO – In occasione della presentazione del suo film, La Scuola, che quest’anno compie 30 anni, il regista Daniele Luchetti ha presentato il film al pubblico della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro. Tra le ultime fatiche del cineasta, si ricordano Confidenza, presentato in concorso all’IFFR – International Film Festival Rotterdam e il docufilm dedicato a Carla Fracci, Codice Carla, oltre alla direzione della terza stagione della fortunata serie tv, L’amica geniale.

La scuola compie 30 anni. Se dovesse girarlo oggi, nel 2025, cosa cambierebbe rispetto ad allora? E cosa, invece, pensa che sia rimasto immutato nel tempo?

Se un produttore oggi mi dicesse quello che mi disse un giorno Cecchi Gori per fare il seguito de La scuola: “Questa bella casa in cui sei in affitto te la compro, fai il seguito de La scuola”, oggi direi sì. All’epoca, snobisticamente, dissi no. Se dovessi rifarlo oggi, cercherei di partire dall’esperienza diretta, da una finestra di osservazione sul mondo che all’epoca mi è stata fornita da Domenico Starnone, l’autore della gran parte dei testi da cui abbiamo tratto il film, che faceva il professore di mestiere. La presa diretta sul mondo è una cosa fondamentale, non si può solo “immaginare”. Oggi sì, ho due figlie che vanno a scuola, ma quello che potrei scrivere di questa esperienza indiretta non sarebbe sufficiente. La visione dall’interno che può avere solo un insegnante sarebbe necessaria per fare un buon lavoro.

La scuola affronta un macrotema, così come in tanti altri casi nei suoi film. Quali sono le grandi tematiche che il cinema italiano sta un po’ trascurando in questi anni? E su cosa invece si sta concentrando di più?

Mi è difficile fare delle generalizzazioni. Produciamo circa 400 film all’anno, quindi quando si tratta di analizzare i temi, non riesco a stilare un elenco preciso. Forse, guardando solo ai titoli più visibili – e ce ne saranno sicuramente altri meno noti che mi sfuggono – noto una certa assenza del genere, cioè di quel tipo di cinema che invece è presente all’estero: un cinema di ricerca ben prodotto, il che significa sostenuto da cast importanti, da produttori importanti, che magari ti incoraggiano a investire tempo nella ricerca per fare un prodotto di successo. Io l’ho fatto un paio di volte con Cattleya: i film che ho fatto con loro, Mio fratello è figlio unico La nostra vita, erano film che avevano quella visione, cioè ottimi film d’autore ben prodotti. In quei casi, si comincia a girare solo quando siamo convinti, quindi il lavoro tra produttori, sceneggiatori e regista è molto approfondito, non si dà un limite di tempo. E questo, a me, un po’ manca.

Visto che stasera si presenta un film che celebra 30 anni di una parte della sua carriera, iniziata già negli anni ’80, se la sentirebbe di fare un bilancio?

Non me la sento di fare un bilancio, perché a me sembra ogni volta di ricominciare. Ogni volta che ho fatto un film di successo, mi è stato chiesto di continuare a farlo, e io ho sempre detto di no. Perché voglio cercare sempre qualcosa di nuovo. Dopo Il portaborse mi hanno chiesto di fare Il pennivendolo, sto inventando i titoli ovviamente. Dopo La scuola, mi hanno chiesto di fare La scuola 2, La scuola 3, La scuola 4, mille volte. Dopo Mio fratello è figlio unico volevano che facessi Il fasciocomunista 2. Mi è successo continuamente. Però, per indole, non sono uno di quei registi che una volta trovata una formula la ripete. Ho il terrore di sentirmi imprigionato negli schemi. Il risultato è che non so qual è il mio schema. Lo scorso anno, ad esempio, quando ho visto una rassegna dei miei film in un festival all’estero, con quattro o cinque titoli miei, ho pensato: “Questi titoli hanno tutti qualcosa in comune, ma non è programmato. Si è trattato di un risultato a posteriori, non preventivo”.

Questa sera è al Festival di Pesaro. Che cosa rappresenta, secondo lei, questo festival in Italia?

Per me il festival è mitologico, anche se non c’ero mai stato prima. Ha sempre significato cinema indipendente, cinema di ricerca. Significava tanto per una generazione leggermente più grande della mia, che veniva “in pellegrinaggio” a scoprire autori sconosciuti. E proprio oggi mi fa particolarmente piacere esserci. Non avrò molto per esplorarla come vorrei, però è una mostra davvero prestigiosa. Almeno io l’ho sempre vista così.

Potrebbe condividere alcune anticipazioni sulla sua carriera? Qualche progetto in corso?

Ho appena finito una serie che uscirà a settembre su Rai 1. E poi sono in preparazione di un film per una piattaforma, ma non posso dire quale, come capita spesso. Diciamo che al momento sono in pieno lavoro, quest’anno è stato un anno più di progettazione che di riprese, come per tanti, ma nel futuro prossimo porterò a termine i progetti che ho scritto in questo periodo.

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