C’è un piccolo animale, con le gambe fragili e lo sguardo limpido, che da cent’anni continua a commuoverci. Non ha bisogno di parole: basta la paura nei suoi occhi quando la madre non risponde, il silenzio tra gli alberi dopo uno sparo, il coraggio con cui si alza e continua a camminare. Bambi è più di un personaggio, è un archetipo.
La sua storia attraversa epoche e linguaggi, sempre fedele a una verità essenziale: crescere significa perdere, ma anche ritrovare. Ritrovare se stessi, un posto nel mondo, una voce nel silenzio. E ora che torna al cinema in una nuova forma, vale la pena fermarsi e ascoltare di nuovo la sua voce. Non quella della tecnologia, ma quella della memoria. Di un bosco che non abbiamo mai smesso di attraversare.
Nel 1923, un piccolo capriolo fa la sua comparsa nel fitto del bosco, silenzioso e vulnerabile come l’infanzia. Si chiama Bambi e nasce dalla penna di Felix Salten, scrittore austro-ungarico ebreo, giornalista e critico viennese, che ambienta nella natura selvaggia una parabola sull’esistenza e sulla fragilità dell’essere. Pubblicato per la prima volta a Berlino dall’editore Paul Zsolnay, il libro ottiene da subito un grande successo, tanto da essere tradotto in inglese da Whittaker Chambers per la casa editrice Simon & Schuster nel 1928, con una prefazione entusiasta di John Galsworthy.
In America, dove il romanzo diventa un long-seller, Bambi conquista anche Walt Disney. Ma già allora, il suo cuore è ben più cupo di quanto si creda: il suo sguardo incantato sulla foresta è il nostro, ogni foglia che fruscia, ogni allarme tra i rami, ogni luce che filtra tra gli alberi è una scoperta. Ma l’incanto ha una scadenza: l’uomo è sempre in agguato, presenza invisibile e fatale. Già allora, Bambi è meno fiaba che monito, meno racconto per bambini che allegoria feroce.
La morte della madre, la solitudine del bosco, il gelo che spacca le cortecce: la vita di un cerbiatto è anche la metafora della vita umana, dove l’apprendimento passa per il dolore e la maturità è figlia della perdita. Non è un caso che il romanzo, visto come metafora della condizione ebraica in Europa, venga bandito dal regime nazista nel 1936.
Nel 1942, Walt Disney decide di addolcire la pillola e farne un film d’animazione. Ma non può evitare la scena madre. Bambi corre nella neve, chiama, nessuno risponde. Uno sparo. La madre non tornerà. E in quel momento, in quel gelo senza risposte, milioni di bambini nel mondo scoprono cos’è il lutto. Nessun villain dai baffi arricciati, nessun sortilegio: solo la mano dell’uomo, fredda e irrazionale. Per questo il film, pur più tenero e fiabesco del romanzo, conserva una potenza emotiva inalterata. La foresta di Disney è viva, commovente, punteggiata da amicizie buffe e amore che sboccia in primavera, ma la paura è sempre dietro il cespuglio. Tamburino e Fiore fanno ridere, ma non riescono a scacciare la minaccia. Bambi cresce, come tutti. E la sua crescita, anche nel cartone, è una lenta accettazione della responsabilità.
Oggi, nel 2025, Bambi torna. Non animato, ma vivo. Michel Fessler, regista francese, lo riporta nella foresta con un film girato con animali veri. Nessuna CGI, nessun effetto speciale: solo una macchina da presa che osserva, accompagna, attende. Gli animali non recitano, esistono. E in quella esistenza senza parole si rivela di nuovo la magia della storia. Il piccolo cervo esplora, inciampa, si nasconde. La madre è accanto a lui fino a quando può. Poi, come sempre, arriva l’autunno. E il colpo. Ma questa volta non c’è musica, non c’è dramma costruito. Solo silenzio, o vento.
Nel film di Fessler, il padre è più presente. Non è solo un’ombra regale che appare nei momenti cruciali, ma un compagno severo e silenzioso che osserva da lontano. È lui, il Principe della foresta, a insegnare a Bambi a diventare adulto. E l’adulto, qui, è chi sa restare in piedi quando il bosco brucia, chi sa proteggere senza combattere, chi resiste nel silenzio.
In ogni versione di Bambi c’è un nodo che non si scioglie: l’infanzia non dura. La scoperta è seguita dalla perdita, la spensieratezza dalla paura. Ma non tutto è dolore. In questa crescita forzata si nasconde anche la meraviglia di diventare. Bambi impara a camminare, poi a fuggire, infine a restare. Diventa padre. Si tramanda. Non è più solo: è parte della foresta, anzi, è la foresta.
La natura è sempre protagonista. Un palcoscenico? Sì, ma anche un personaggio. Respira, cambia, resiste. Il messaggio è implicito ma potente: l’equilibrio è delicato, l’uomo è il pericolo. Non c’è innocenza nel fuoco: è volontà che brucia, distruzione che sceglie. Arde, divora, cancella con furia deliberata. I colpi non sono svista, ma bersaglio. Hanno una mira, anche se restano senza volto. Sono la volontà di dominare ciò che non si comprende.
Negli anni, Bambi è diventato un simbolo. La morte della madre è entrata nella memoria collettiva, nelle gag, nei discorsi da bar. È diventata metafora dell’innocenza violata, della prima crepa nell’infanzia. Ma anche un punto di partenza. Per alcuni, Bambi ha addirittura cambiato la percezione della caccia. L’empatia verso gli animali è cresciuta. Si è parlato di “sindrome di Bambi” per descrivere quel sentimento di compassione che fa abbassare il fucile. Forse ingenuità, forse civiltà. Ma reale.
Ogni generazione ha avuto il suo Bambi. Nel dopoguerra era speranza e dolore. Negli anni Ottanta era videocassetta da guardare in silenzio. Oggi è un monito ecologico. Ma sempre con gli stessi occhi: grandi, lucidi, attenti. Perché Bambi siamo noi, quando perdiamo qualcosa e non sappiamo più come si fa a giocare. Ma anche quando, contro ogni logica, impariamo di nuovo a correre nel bosco.
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