Paul Newman, nato a Shaker Heights (Ohio) nel 1925 e scomparso nel 2008, avrebbe compiuto oggi 100 anni. Il suo nome resta un esempio quasi unico di come un’icona di Hollywood possa invecchiare davanti alle telecamere con leggerezza, senza cedimenti né eccessi di vanità. A contrario di colleghi leggendari come Cary Grant o Burt Reynolds, Newman non ha mai mostrato di preoccuparsi dei capelli ingrigiti o dei solchi che gli attraversavano il viso. Già nel 1969, quando aveva 44 anni e girava Butch Cassidy and the Sundance Kid insieme a Robert Redford, Newman si comportava sullo schermo con autorevolezza, soprattutto in quella scena rimasta celebre in cui l’amico fuorilegge confessa di non saper nuotare prima di un salto nel vuoto. La sua ironica risposta – “Ma che importa se tanto la caduta probabilmente ti ammazzerà!” – rende bene l’idea: Newman sembrava un veterano che aveva già visto di tutto. A differenza di Redford, attentissimo al look perfetto, il suo interlocutore ostentava grinta e disincanto in modo spontaneo e vincente, dando un consiglio implicito a generazioni di spettatori: la bellezza non sta nella perfezione ma nel saper portare i propri anni con stile.
Il Paul Newman che conosciamo, non nacque in un giorno. Dopo un inizio promettente a Broadway, negli anni ’50 venne ingabbiato dai grandi studi di Hollywood in ruoli poco adatti al suo talento. Film come The Helen Morgan Story (1957), la commedia Rally Round the Flag, Boys! (1958) e l’adattamento di Le avventure di un giovane uomo (1962) non esaltarono certo la sua presenza scenica. Anche le prime affermazioni in pellicole come La gatta sul tetto che scotta o La lunga estate calda (entrambe del 1958) mostravano un Newman ancora imbrigliato nell’immagine del giovane affascinante.
Non sempre lavorare con i più grandi registi costituiva un vantaggio. Alfred Hitchcock, ad esempio, si disse deluso dalla rigidità “da Metodo” di Newman nel thriller di spionaggio Il sipario strappato (1966). Il maestro del brivido avrebbe voluto qualche sguardo più neutro per sottolineare i passaggi chiave del racconto, ma l’attore – proiettato nei suoi studi interiori – faceva fatica a lasciarsi dirigere come una “sagoma di cartone”. Il critico David Thomson ha ipotizzato che Newman non si sentisse del tutto a proprio agio con i suoi doni naturali, a partire dall’aspetto fisico, e tentasse di scardinarli attraverso film più autoriali e riflessivi, come Rachel, Rachel (1968) o The Effect of Gamma Rays on Man-in-the-Moon Marigolds (1972), entrambi da lui diretti. In verità, è probabile che solo il passare degli anni lo abbia aiutato a superare le incertezze legate al ruolo di idolo delle matinée.
Con il declino del vecchio sistema degli Studios e l’emergere della New Hollywood, Newman trovò maggiore libertà di espressione. In Butch Cassidy (1969) e soprattutto in La stangata (1973), si è divertito a fare da “mentore” al suo giovane co-protagonista Redford, riproponendo la stessa simpatica dinamica tra veterano scafato e apprendista pieno di buona volontà. Indimenticabile la scena di poker in La stangata in cui Newman, nei panni dell’imbroglione Henry Gondorff, provoca deliberatamente il rivale Doyle Lonnegan (Robert Shaw) storpiandone il nome e usando la cravatta dell’altro per soffiarsi il naso. Parallelamente, però, l’attore si dedicava anche a parti drammatiche che richiedevano un’interpretazione più intensa. Ne è un ottimo esempio Il verdetto (1982) di Sidney Lumet, in cui Newman interpreta un avvocato alcolizzato e in declino, impegnato in una causa di negligenza medica a Boston. Qui la vera posta in gioco non è solo la vittoria in tribunale, ma anche la sua capacità di ritrovare la propria dignità.
Dopo aver interpretato lo squalo del biliardo Eddie Felson in Lo spaccone (1961), Newman riprese lo stesso personaggio in Il colore dei soldi (1986). Ancora una volta affiancato da un giovanissimo talento (Tom Cruise), si aggiudicò finalmente l’Oscar come miglior attore. Eppure non si accontentò del ruolo dell’amatissimo “fratello maggiore di tutti”: non esitò a mostrarsi via via più anziano anche in Mr. and Mrs. Bridge (1990), diretto da James Ivory, in cui recitò al fianco dell’adorata Joanne Woodward. Fu un ritratto delicato di una coppia di lunga data, che regge grazie alla devozione reciproca e ai legami costruiti nel tempo.
Sotto la direzione di Robert Benton, Newman affinò la sua vena malinconica in Harry & Son, Nobody’s Fool (1994) e Twilight (1998). La sua ultima grande interpretazione arrivò con Era mio padre (2002) di Sam Mendes, un crime drama ambientato negli anni della Depressione in cui Newman fu probabilmente il solo del cast a rendere tangibile il contesto storico. Nel frattempo, aveva realizzato anche il sogno “teatrale” rimasto in sospeso dagli esordi, ottenendo una nomination al Tony Award nel 2002 per la sua partecipazione a Our Town a Broadway.
Morì nel 2008, a 83 anni, lasciando l’impressione di un uomo che aveva saputo conservare fino all’ultimo la propria quieta autorevolezza. E, in fin dei conti, questa è forse la sua eredità più grande: insegnarci che invecchiare, in un ambiente ossessionato dalla gioventù, può diventare un’arte.
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