“Quando mi hanno chiesto di far parte della giuria, non pensavo fosse così difficile, visto che a casa vedo 3-4 film al giorno. Poi improvvisamente ti trovi a giudicare, dimentichi i parametri classici, e cominciano a piacerti anche film di cui non sei così convinto. Quanto ai film italiani, li guardo nello stesso identico modo degli altri, occorre non avere un aspetto corporativo, come nei festival letterari”. Niccolò Ammaniti, scrittore e sceneggiatore per Gabriele Salvatores, Marco Risi, e Francesco Ranieri Martinotti, veste per la prima volta i panni di giurato, del Concorso internazionale del Festival di Locarno, insieme a Stefania Rocca.
Come vedrà da oggi in poi il ruolo del critico cinematografico?
Ho sempre guardato con estremo interesse a questa figura, interrogandomi però sul suo vissuto. Coloro che per 30 anni hanno visto film, hanno sempre vissuto in seconda battuta, e alla fine si crea una memoria umana accessoria, si finisce per vivere per interposta persona.
Che tipo di cinema le piace?
Soprattutto film che hanno lavorato per sottrazione, in cui la macchina da presa indugia poco sulla costruzione tradizionale cinematografica, come in Il figlio dei fratelli Dardenne.
Ha mai pensato di dirigere un film?
Sì e continuo a farlo. Non voglio girare un film tratto da un mio romanzo, mi sembrerebbe di rielaborare un testo che mi ha portato via talmente tanto tempo che sicuramente si è consumato. Mi piacerebbe partire invece da un’idea originale, da cui sviluppare la sceneggiatura.
Ma “Io non ho paura” non nasce come soggetto per una sua regia?
É vero nasce come soggetto, ma non volevo assolutamente dirigerlo, bensì produrlo, perché ingenuamente credevo che una storia di quattro bambini in un campo di grano si potesse realizzare con pochi soldi. Già mi ero occupato dei sopralluoghi, ma nel frattempo mi chiesero un nuovo libro. Poi nel computer ho ritrovato quella storia, mi è piaciuta e l’ho scritta di corsa.
Ha sceneggiato anche il nuovo film di Alex Infascelli “Il siero della vanità”.
Quella storia è nata da un libro che immaginavo di mille pagine: ho accumulato moltissimo materiale, mi sono perso e poi l’ho abbandonato. Questo ammasso si è trasformato in una specie di donatore di organi, da cui ho strappato pezzi quando mi chiedevano dei racconti. Del cuore di questo libro non sapevo più che farne, ho raccontato la storia a Infascelli che cercava una sceneggiatura. L’ho scritta e gliel’ho consegnata, lui ha fatto il film.
Perché affrontare, da scrittore, il mondo delle immagini?
Quando lavoro 2 anni e mezzo in reclusione, mi piace l’idea di lavorare con un gruppo di persone. Il cinema è un’idea globale. Non è però vero che scriva libri vedendone già le immagini, piuttosto penso che una buona storia si adatti ad un libro o a un film.
La sua passione per il cinema, a parte i fratelli Dardenne?
Il cinema italiano vive un ottimo periodo, soprattutto negli ultimi due anni: penso a Crialese, Sorrentino, Garrone. Mi affascina che si parli di situazioni marginali, in cui le passioni sono più forti. L’unico difetto è nella ‘censura’ di alcune scene di sangue o di sesso in cui la macchina da presa si allontana, a differenza di autori stranieri come Michael Haneke, i Dardenne o di film come Irreversible che non si preoccupano di essere disturbanti.
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