Mauro Corona, “anima blues, rockstar delle rocce”

L’intervista a Niccolò Maria Pagani, regista del doc ‘Mauro Corona – La mia vita finché capita’ dal 5 maggio al cinema: voce narrante Giancarlo Giannini


“Nessuno scultore della propria vita sa quel che troverà intagliandola”: Mauro Corona – La mia vita finché capita è il doc che Niccolò Maria Pagani ha diretto, dedicato allo scrittore, alpinista e scultore friulano, in anteprima al Trento Film Festival e dal 5 maggio in sala con Wanted Cinema.

Il doc, come una lente d’ingrandimento, e senza pareti che facciano da filtro all’intimità dell’animo, s’avvicina e s’immerge dentro il profilo di un uomo che appartiene a questo tempo ma, altrettanto, radicato profondamente in un tempo antico. Per Pagani raccontare Corona è stato un viaggio, non solo nelle pieghe della persona, ma propriamente fisico, in un luogo che è il cuore del protagonista tanto quanto quello organico: sette mesi – di riprese e montaggio – a Erto Vecchia, villaggio nella valle del Vajont. Questo film è un ‘romanzo dell’esistenza’: con queste parole si cita proprio Corona, che conduce passo passo dall’infanzia complessa all’età adulta.

Lasciando spento il personaggio pop, il sarcasmo televisivo, Pagani incontra faccia a faccia un uomo sì schietto ma autentico rispetto a se stesso, al suo essere tanto scultore quanto scrittore, segnato da un essere stato bambino e figlio che sono come una cicatrice sempre fresca.

Il racconto in prima persona – come un’altalena, non a caso – è alternato da quello affettuoso e complice di Erri De Luca, Davide Van De Sfroos, Piero Pelù – che definisce Corona “anima blues, rockstar delle rocce”:  c’è un filo rosso che scorre tra le voci, che legge alcuni passi del suo libro, Le altalene appunto, ed è Giancarlo Giannini.

Niccolò, parlare della vita significa parlare della morte: Mauro Corona non si sottrae, la evoca, la commenta, la chiama a sé – ripete la parola ‘suicidio’, per esempio. Dal suo racconto emerge un pessimismo leopardiano, ma infine è un uomo che resta attaccato alla vita come ha la premura di restare saldo alla parete montana. Dalle tante ore trascorse accanto, cosa ha capito sia per lui la morte?

Sicuramente, il paragone con la montagna e con la scalata è molto intenso, parla tanto di lui. Durante le riprese voleva scalare senza corde, cosa che gli abbiamo impedito perché, fosse stato per lui, l’avrebbe fatto: quindi, questo stare in bilico tra la vita e la morte, attaccato a una parete, secondo me è quello che ha fatto tanto anche nella sua carriera di scrittore. Questo è un film sulla morte e sulla vecchiaia: è un film sull’inverno, non solo quello meteorologico ma metaforico; è l’inverno della vita, con tutte le sue sfaccettature, anche con i suoi punti belli, come nel momento in cui arriva Erri De Luca, che dice: ‘questa è la mia età migliore’ e così riporta una parvenza di ottimismo, ed è forse l’unico tra gli ospiti che dà quella ventata; il fatto che arrivi una ventata di ottimismo da un coetaneo di Mauro fa abbastanza effetto e spiega bene la differenza dei personaggi, spiegando bene chi sia Mauro Corona.

Raccontare Mauro Corona è anche fare un racconto filosofico e pragmatico sul tempo: lei cosa ha dedotto, imparato, messo in discussione sul senso del tempo?

Una delle mie preoccupazioni all’inizio delle riprese, quando ho conosciuto Mauro, era che ci potessero essere tante diversità tra noi e magari potessero emergere in maniera negativa nel film. In realtà, anche se ci dividono più di 30 anni di età, il fatto di essermi trasferito a vivere a Erto per sette mesi ha fatto sì che entrassi nel suo mondo e – in qualche modo – entrassi tanto anche nella sua testa; abbiamo trovato tante similitudini e sicuramente essermi staccato da Milano per andare a vivere lì ha fatto tanto: la vicinanza a lui mi ha fatto pensare, riflettere e ragionare su tante cose della mia vita. È stato un po’ un percorso di analisi, se vogliamo, fatto attraverso prima le riprese, poi il montaggio, poi la post-produzione del film.

Corona è persona confidente con la macchina da presa ma è anche uno spirito libero, funziona televisivamente laddove non messo in una gabbia: come ha reagito alla proposta del film, quali libertà e quali paletti ha posto come condizioni per aderire?

Ha reagito dicendo: ‘ma cosa vuoi che gliene freghi alla gente di un film su di me?’. Una delle cose che faccio nei miei documentari è dire al mio protagonista di sentirsi completamente libero di fare e dire tutto ciò che vuole perché poi – se qualcosa non gli va bene – nel montaggio finale non sono io quello che la metterà lo stesso: questo credo che gli abbia dato una grande libertà. Non ha detto praticamente nessun ‘no’, quindi gli è andato bene tutto. Lui con le telecamere si sente particolarmente a suo agio, secondo me perché non gli importa niente che ci sia una camera davanti: tante persone si accendono e cambiano completamente il modo di parlare, il modo di pensare, cioè si mettono la maschera da telecamera, ma io sono partito proprio dicendo: ‘Mauro togliamo la maschera di Cartabianca e vediamo davvero chi sei tu’. Quindi, credo questa sua confidenza con la telecamera sia perché stare davanti all’obiettivo o stare nella sua tana con i suoi amici di sempre non gli faccia alcuna differenza.

Ma la proposta vera e propria del film, l’adesione al progetto, com’è avvenuta?

Il suo agente mi aveva invitato alla presentazione di un suo libro a Milano e io ho detto: ‘guarda, Corona non mi piace, quello che fa il pagliaccio dalla Berlinguer non mi interessa, non ci vedo materiale per un documentario’. Poi, in realtà, mi è bastato stare a tavola con lui 20 minuti per dire ‘no, aspetta, qua c’è tutt’altro, qua c’è un universo ed è un universo che nessuno conosce apparentemente’; lo conoscono quelli che leggono i suoi libri, ma chi lo conosce solo come personaggio televisivo quell’aspetto lì non lo sa. Piero Pelù lo descrive bene quando usa la parola ‘sensibile’, tutto si direbbe probabilmente di Mauro Corona tranne che sia una persona sensibile, invece è proprio quello, è un uomo di una dolcezza enorme che ogni tanto ha bisogno di mascherare con quell’atteggiamento da burbero, che usa come protezione.

Erri De Luca, Davide Van De Sfroos, Piero Pelù sono amici di Corona e artisti affini: i dialoghi, i racconti, sono frutto di estemporaneità oppure esisteva un canovaccio tematico, una traccia necessaria a comporre la narrazione del protagonista?

Quando c’era Mauro da solo gli davo l’input iniziale, per esempio semplicemente dicendo ‘cosa rappresenta per te la memoria, cosa vuol dire per te scolpire’ e da lì approfondivamo un pochettino l’argomento. Quando c’erano gli ospiti c’era invece una libertà totale, perché non volevo sentissero l’imposizione di dover parlare di qualcosa piuttosto che di qualcos’altro: volevo ricreare l’idea di due persone che non si vedevano da tanto, che si trovavano in un rifugio in montagna davanti a un bicchiere di vino con il fuoco e la chitarra, quindi è stato anche un gioco il pensare ‘vediamo cosa viene fuori, vediamo cosa succede’ e credo sia stata una scommessa vinta perché la naturalezza dei loro dialoghi viene fuori molto bene nel film. Non c’è nulla di scritto, non c’è parte che cercassi di incanalare.

Corona a un certo punto, parlando della sua esistenza, dice ‘eravamo brutti sbronzi e cattivi’,  parole che ovviamente evocano certo cinema e, proprio a questa testata, disse che la sua vita era stata come un film di genere western. Pensando a quel cinema, che personaggio è Mauro Corona?

Sicuramente ‘brutti sbronzi cattivi’ è… qualunque personaggio di qualunque film di Sergio Leone che poi – a volte – il cattivo non si capisce se sia davvero il cattivo perché magari risulta essere il buono alla fine, quindi Mauro è sì un personaggio da film western, è un ‘brutto sbronzo cattivo’ di Leone, ma è un cattivo dall’animo buono.

E che connessione ha con la voce di Giancarlo Giannini? Certamente è una delle più eccelse che potesse immaginare ma come l’ha pensata correlata a Mauro Corona? Non ha temuto che appaiare due ‘voci’ di così forte personalità e riconoscibilità potesse conferire ridondanza e/o togliere spontaneità al racconto del protagonista?

Dunque, all’inizio c’era l’idea di non mettere nessuna voce famosa, nel mio primo Rough Cut avevo previsto di lasciare la mia voce che raccontasse ma poi ho pensato che una grandissima forza su cui ho potuto lavorare fosse l’enorme materiale letterario di Mauro: ho pensato che affidare le frasi d’impatto del libro a una voce importante potesse essere la scelta giusta, a costo di rischiare – è vero – che fosse ridondante, ma credo che la personalità di Mauro sia talmente forte da non temere nemmeno di avere una una voce così famosa sotto. Giannini è sicuramente il doppiatore italiano attualmente più famoso nel mondo e ho creduto che Mauro potesse reggere questa cosa; per la lettura de L’altalena, proprio grazie al carisma di Mauro, ho potuto usare una voce così così importante; la scelta è ricaduta su Giannini anche perché pensando a una serie di altri attori, che all’inizio mi piacevano per il tono di voce, purtroppo erano tanto legati al cinema romano e, per quanto con l’accento d’attore riuscissero a mascherarlo, comunque c’era sempre un po’ quell’inflessione che col mio film non c’entrava proprio nulla, mentre Giannini ha anche la neutralità perfetta dell’accento. Quando la prima volta ho sentito i brani letti da lui è stata una cosa da pelle d’oca: quello che dicevo a Giannini quando stavamo registrando era di cercare di farla il più greve possibile, ‘deve essere una voce malinconica’, perché credo che la malinconia sia una delle tematiche più presenti in tutto il film, anche nei momenti felici c’è sempre quel velo.

Giannini e Corona si conoscevano prima, si sono parlati per il progetto: c’è stata connessione?

Si erano conosciuti a un festival del libro a Torino, con Giannini che chiese una sigaretta a Mauro se non sbaglio, e Mauro forse gli chiese addirittura la foto offrendogli la sigaretta: c’era stato un brevissimo scambio di parole e devo dire che Giannini, quando gli ho proposto di fare questa cosa, ha accettato subito ed è stato davvero disponibile, per cui credo che in qualche modo ci fosse già della stima.

Pagani, inoltre, tiene a far notare “la scelta della canzone finale, una di quelle cose su cui c’è stato dibattito anche interno: è un film senza donne, questo perché nel mondo di Mauro non ci sono donne essenzialmente, il suo mondo è quello che uno vede nel documentario ma arrivando alla scena del cimitero, sulla tomba della madre, mi piaceva l’idea che a cantare quella canzone lì, Sole spento, ci fosse la voce di una donna e con Omar Pedrini abbiamo deciso di fare una scelta un po’ particolare, infatti chi canta si chiama Orsola Scarpa, un’abitante di Erto, di 26 anni, che si è trasferita da anni e che ho conosciuto lì; sapevo canticchiasse sotto la doccia e le abbiamo proposto di fare questa cosa: una canzone interpretata in maniera semplice ma profonda da Orsola che, nella dura lotta della vita, sboccia come un fiore in montagna, come acqua fresca sgorga dalle rocce, cosa che rende perfettamente quello che abbiamo cercato di fare; la sua voce non è perfetta, ci sono anche le sue stonature, ma la scelta di non usare l’auto tune è stata proprio per non andare a mistificare ma lasciare – anche nella canzone finale – qualche imperfezione, così come nella vita di Mauro ci sono tante imperfezioni”.

E, sempre a proposito di un apporto giovane, il regista indica come “una delle cose belle della troupe sia stato il direttore a fotografia, Luca Da Dalt, all’epoca delle riprese nemmeno 25 anni: ha portato una visione un pochettino più fresca, altrimenti, solo con me e Mauro chiusi nella nostra malinconia, sarebbe stato tutto molto più pesante e invece credo abbia fatto un lavoro con grandissima maturità”.

Il film è una produzione USHUAIA FILM e WANTED CINEMA, con il patrocinio del CAI.

 

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01 Maggio 2025

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