Matilda De Angelis, l’elegia dell’ultimo Hemingway

‘Di là dal fiume e tra gli alberi’, adattamento dal romanzo, è diretto da Paula Ortiz, con l’attrice italiana nei panni della giovane contessa e Liev Schreiber in quelli del colonnello malato terminale


C’è un tempo sospeso che il cinema, quando trova il respiro giusto, riesce a far emergere come una nebbia leggera: non è il tempo della trama, né quello della memoria, ma una fluttuazione interiore che avvolge i corpi, li scolora e li rende icone di qualcosa che non si può più possedere. Di là dal fiume e tra gli alberi, adattamento dell’ultimo romanzo di Ernest Hemingway, diretto per il cinema da Paula Ortiz, è un film che tenta questa ardua impresa: trasformare una prosa crepuscolare, sfilacciata nella struttura ma febbrile nei sentimenti, in una partitura visiva che non tema il languore, né l’eccesso.

La storia, per chi la ricorda dalla letteratura, racconta di un colonnello americano, Richard Cantwell (Liev Schreiber) fisicamente provato dalla guerra e dalla vita, malato terminale, che s’aggira in una Venezia tardo-novecentesca per affrontare la propria morte. Ma prima – e forse proprio per questo – si lascia trascinare in un ultimo, malinconico amore con una giovane contessa italiana, Renata (Matilda De Angelis).

Il romanzo, spesso liquidato come minore, contiene invece il codice del testamento di Hemingway: l’ossessione per la fine, la bellezza che sfuma, la guerra come scultura interiore. Ed è proprio su queste note sottili che il film costruisce la sua architettura fragile e bellissima.

Schreiber presta al colonnello una fisicità stanca, che non cerca il carisma. Lo sguardo dell’attore non è quello di un eroe, ma di un uomo che ha perso qualsiasi bisogno di sembrare… Il suo corpo non interpreta, ma riflette: è una superficie debilitata, che ha assorbito troppa storia. La voce roca, il passo appesantito, il modo in cui tocca il bicchiere o l’orlo della giacca: tutto, in lui, suggerisce un’adesione sottile alla dissoluzione, mai tragica, mai pietistica.

Al suo fianco, Matilda De Angelis è una Renata impalpabile ma nervosa, con una grazia intermittente e una tensione sotto pelle che tradisce la profondità del personaggio. Non è solo l’amante giovane e luminosa: è l’ultima visione, l’ultimo desiderio, l’ultimo specchio in cui l’uomo può vedere una versione più tenera e illusoria di sé. Il gioco tra i due non è quello della seduzione convenzionale: è un rito di passaggio, una cerimonia segreta tra chi sa e chi ancora spera.

Il film non ha fretta di raccontare: ogni scena sembra galleggiare in un’acqua densa, e la regia di Ortiz – già nota per La novia (2015), rilettura lirica di García Lorca – insiste su inquadrature che sfiorano il pittorico senza mai diventare cartolina. Venezia, filmata nella luce spenta dell’inverno, è tutt’altro che romantica: è una città che guarda, che ascolta, che custodisce. I canali, le calli, i vetri, i riflessi: tutto concorre a creare un senso di sospensione esistenziale. Il tempo non scorre, si allarga.

Un ruolo decisivo in questa sospensione lo gioca la fotografia, che lavora su una tavolozza ridotta e raffinata: grigi perlati, verdi lividi, ori screziati. Ogni luce sembra uscire da un dipinto di De Chirico o di Turner, ma senza la retorica estetizzante. La bellezza qui è stanca, come il protagonista. E proprio in questo sfinimento estetico trova la sua potenza.

La corolla degli interpreti italiani è di rilievo e mai ridotta a funzione decorativa. Laura Morante, con il volto tragico e composto, è una presenza che sembra custodire un segreto. Massimo Popolizio presta la sua voce cavernosa a un personaggio che funziona quasi come doppio oscuro del colonnello, custode della memoria militare e della disfatta etica. Maurizio Lombardi è insinuante, sempre in bilico tra l’ironia e il crepuscolo, mentre Sabrina Impacciatore – in uno dei ruoli più sobri della sua recente carriera – offre una prova trattenuta, come se ogni parola venisse da una ferita suturata a fatica.

Il montaggio procede per accumulazione di stati d’animo. Le scene non si rincorrono, ma si osservano, si ascoltano a vicenda. I dialoghi, spesso fedeli allo spirito del romanzo, sono fatti di interruzioni, di sottintesi, di piccoli cortocircuiti emotivi. Nulla è detto fino in fondo, e proprio per questo ogni battuta suona come una confessione a metà, più potente per quello che lascia fuori.

Di là dal fiume e tra gli alberi non è un film per chi cerca una storia. È una camera di eco, una meditazione sul corpo che si spegne e sul desiderio che ancora insiste. È un film che accetta il silenzio, la lentezza, la bellezza che si frantuma. In un tempo cinematografico ossessionato dalla velocità e dalla forma, questo piccolo film elegiaco ha il coraggio della deriva. Hemingway, con la sua ultima prosa, avrebbe forse riconosciuto in questo adattamento la stessa stanchezza luminosa che animava le sue ultime parole. E forse, tra le pieghe delle immagini e i silenzi dei personaggi, avrebbe sorriso, per un attimo, con quel sorriso a metà tra l’alcol e la grazia che aveva imparato a indossare verso la fine.

Il film esce al cinema dal 3 luglio con PFA Films in collaborazione con L’Altro Film.

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25 Giugno 2025

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