Marco Tullio Giordana: “Raccontare il crimine è come un esame sotto sforzo”

Ospite del Milazzo Film Festival - Attorstudio, il grande regista ci racconta la sua esperienza con gli attori che ha diretto e con i generi che frequenta maggiormente


MILAZZO – In mezzo ai tanti attori che animano il cuore di un festival cucito su misura per loro, il Milazzo Film Festival – Attorstudio, i direttori artistici Caterina Taricano e Mario Sesti hanno riservato uno spazio speciale anche per un regista, Marco Tullio Giordana, un maestro del nostro cinema per la quantità e la qualità di opere che ci ha saputo regalare. Sempre attento a temi sociali e di stampo politico, il cineasta è l’anello di congiunzione tra le ospiti di ieri – Vanessa Scalera, con cui ha girato Lea nel 2015 – e di oggi: Sonia Bergamasco, protagonista del suo ultimo film, La vita accanto.

Lo abbiamo incontrato poco prima che salisse sul palco per consegnare il premio Acting Award, proprio a Vanessa Scalera.

Marco Tullio Giordana, tra i tanti meriti della sua carriera, c’è quello di avere offerto a Vanessa Scalera il suo primo ruolo da protagonista. Cosa ha visto in lei?

La cosa che mi ha colpito di Vanessa Scalera era l’assoluta naturalezza con cui lei pronunciava delle cose scritte sul copione. Quando lo sceneggiatore le scrive è come se se le dicesse da solo: non vivono come nella bocca degli attori. Alle volte è come se le parole dell’attore rimanessero inerti, altre volte, invece, è come se le dicessero per la prima volta, non fossero lette. In quel momento l’attore coincide perfettamente con il personaggio e, quando, succede tu sei sicuro che il film sarà vincente perché tu vedrai qualcosa che ti sta succedendo sotto gli occhi e non la ripetizione di qualcosa che è stato scritto tanto tempo prima. Quando ho quella sensazione, capisco di trovarmi di trovarmi di fronte un attore di grande talento.

È vero che scelse il cast de La meglio gioventù perché erano già amici nella vita vera?

In parte è vero, molti di loro erano amici perché avevano studiato all’Accademia Silvio d’Amico insieme. C’era un rapporto molto profondo e non dovevano simulare l’amicizia. Però non era così per tutti: in molti casi ho fatto delle scelte slegate, come ho sempre fatto in tutta la mia carriera. Anche se, in verità, per il mio primo film avevo un interprete straordinario Flavio Bucci, uno dei nostri più grandi attori; e per il secondo avevo Vittorio Mezzogiorno. Quindi non ho iniziato con l’idea della scoperta, ma con il desiderio di imparare io da questi attori. Nel mio terzo film il protagonista era Umberto Orsini, attore di consumatissima esperienza. In altri casi si è trattato di rovesciare l’immagine che aveva un attore:per esempio quando scelsi Isabella Ferrari per Appuntamento a Liverpool, lei aveva sempre sostenuto dei ruoli più leggeri, enigmatici. Si capiva che era un’attrice di talento ma forse era insospettabile vedere in lei anche delle qualità di interprete drammatiche.

Lei gliel’è ha viste.

Sì. Non scopri niente, è tutto lì. Devi solo riconoscerlo.

Nel suo ultimo film, la sfida assoluta di dirigere per lo stesso ruolo tre interpreti completamente diverse: una bambina, un’attrice giovanissima ma con molta esperienza, e una ragazza esordiente.

Le prime scelte per me sono state le bambine, la protagonista e la sua amica. In base alle bambine dotate che avessi trovato, avrei cercato delle attrici che le somigliavano nello sviluppo. Sono partito proprio dalla piccolina. È difficile lavorare con i bambini, perché hanno un’idea completamente naturale del gioco: non c’è nessuno che possa inventare dei pezzi di teatro meglio dei bambini. Devono però scriverli loro, in un certo senso. Quando lavori con degli attori molto giovani devi trasformare tutto in un gioco, qualcosa che assomigli alla loro esperienza. Naturalmente Sara Ciocca è un’attrice espertissima. Il problema è che aveva gli occhi azzurri e quindi le abbiamo dovuto mettere delle lenti a contatto, che in genere è qualcosa che danneggia gli attori. In quel caso, per fortuna, sembra che lei sia nata con gli occhi neri. Una volta che cercavamo una morettina che crescesse con quei lineamenti, abbiamo trovato una pianista Beatrice Barison, che, malgrado non avesse mai fatto nulla, ha dimostrato, oltre a un grande talento come musicista, delle grandi qualità naturali di attrice. Spero che continuerà, purché non si distolga dal pianoforte.

Lei ha diretto tante storie di criminalità. Il termine “true crime” ora va molto di moda: perché, secondo lei, questo tipo di storie ci affascinano tanto.

Deve essere qualcosa che ha a che fare con lo stesso tipo di sadismo che fa staccare il piede dall’acceleratore per vedere gli incidenti successi agli altri. È successo a loro e non a noi. A me non interessa questo aspetto del racconto del crimine. Mi interessa ciò che il crimine rivela, cioè un contesto, un mondo, le figure coinvolte. Ti offre uno spaccato. È come se tu fotografassi un momento di torsione tremenda, di crisi profonda nella vita di qualcuno. Come quando si fa l’esame sotto sforzo del cuore, perché lo sottoponi a uno stress molto forte e vedi le sue reazioni.

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08 Marzo 2025

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