Marco Paolini è il padre teatrale di Mar De Molada, progetto andato in scena in tappe di teatro campestre, lungo il corso dei fiumi, dalla Marmolada al mare: Mar De Molada è un racconto di “geometrie frattali” perché “su scale diverse, un albero e un fiume si somigliano”. Marco Segato è invece il padre cinematografico del progetto, dietro la macchina da presa di questo “diario di bordo”, in anteprima al Trento Film Festival.
Signor Paolini, il titolo evoca un territorio liminale, che si aggrappa tanto alla montagna quanto al mare, e si costruisce tra l’architettura dei fiumi e quella degli alberi. Crede che il cinema (o il teatro) abbia la forza di immergersi e far emergere all’attenzione della coscienza collettiva questi ‘spazi di frontiera’, che sono spaccati ecosistemici necessari alla sopravvivenza?
La sintesi è se sono ottimista o pessimista, e sono obbligato a non essere cinico: dunque, avendo a disposizione una lingua, quella del teatro, ho provato a immaginarla come qualcosa che si possa fare anche fuori dal teatro. L’appuntamento che abbiamo costruito è stato un viaggio che ha invitato le persone a venire sulla riva di un torrente di montagna sotto la Marmolada prima, poi lungo un affluente del Piave, poi ancora sul corso del fiume, e infine in riva al mare. Sono stati degli appuntamenti per tante persone, una media di 2000 persone alla volta. Oltre al narratore e al sottoscritto, c’era un coro formato da cittadini, cori cantati con scienziati e colleghi artisti. Quindi, c’era il senso della coralità nel coinvolgere i territori dove questa carovana arrivava, perché fossero ospitali e accoglienti, perché rispondessero alla chiamata di questo percorso. Non diamo per scontato che il teatro produca come effetto una coscienza civica immediatamente utilizzabile, benché si tratti sicuramente di un linguaggio universale: gli scienziati sono costretti a usare algoritmi e numeri e il nostro cervello rifiuta di memorizzarli perché li sostituisce velocemente, mentre riusciamo sicuramente a ricordare qualcosa che ci ha emozionato. I sentimenti sono algoritmi genetici, perché una madre riconosce il dolore del figlio e sa distinguere se stia facendo i capricci o se sia dolore vero. Quell’empatia è alla base delle relazioni umane, e tutto questo si tramanda geneticamente, è una memoria che abbiamo imparato. Dunque, senza i sentimenti buona parte del nostro agire nei confronti del mondo non sarebbe possibile; estendere il sentimento madre-figlio al prossimo è obiettivo del Vangelo, così come trasmetterlo e orientare quella stessa empatia nei confronti del paesaggio che abbiamo intorno e di tutto ciò che di non umano lo abita, ma non per ragioni puramente estetiche o altruistiche, ma anche funzionali o egoistiche, perché ovviamente da soli non possiamo farcela. Tutto questo può essere raccontato dall’arte e, nel caso specifico, noi abbiamo costruito un evento dal vivo, immaginando il teatro, e poi abbiamo filmato ogni passaggio, non per fare la ripresa del teatro, ma per raccontare il diario. Dunque, in piena autonomia, Marco Segato ha filmato e scelto che cosa raccontare: io ho piena fiducia nelle scelte che lui fa perché collaboriamo da molti anni, e ognuno ha fatto la sua parte. Io ho visto qualcosa del montato, ma non il definitivo, perché sono sempre in giro con il teatro e quindi il film me lo godo qui a Trento, in sala, con il pubblico, e sono solo felice di scoprirlo così.
Qual è il segreto?
Che nessuno metta bocca nel lavoro dell’altro. Possiamo usare linguaggi non verbali, così io ho visto i materiali, so che lui li ha fatti vedere anche ad altri che si intendono di cinema, ma io ho voluto vedere che cosa un’altra persona, un altro autore, potesse estrapolare dal lavoro che avevo fatto io; in fondo non è molto diverso da quello che stiamo facendo con i cori, con il coinvolgimento di altri artisti, quello che abbiamo fatto anche del testo di Vajont. Non c’è un minculpop, non c’è un controllo qualità, ma bisogna avere fiducia che artisti che fanno lo stesso mestiere non diranno mai due volte una cosa nello stesso modo. Questa è la fondamentale differenza tra la ricerca scientifica e la ricerca artistica. Di solito, la ricerca scientifica tende a confermare i risultati e dunque la conferma è una verifica: nel teatro, se due artisti fanno lo stesso testo non lo fanno nello stesso modo, non mettono in scena nello stesso modo, così ogni trasposizione filmica di un romanzo è un tradimento che può essere fertile o può essere disastroso; il tradimento, nel passaggio tra i linguaggi dell’arte – dalla parola scritta alla parola detta, dal live all’opera filmica – è totale riscrittura. Quindi, deve esserci tradimento per generare vita nuova, altrimenti resta tutto schiacciato sotto il modello che si sta riproducendo.
Pensando al sodalizio artistico con Marco Segato, Mar De Molada è un po’ un Giano Bifronte: ha una stessa struttura centrale di adesione ma poi – con l’imprevedibilità della creatività – sa guardare con i due volti, teatrale e cinematografico.
Mentre stavo facendo lo spettacolo del vivo, quando succedeva qualcosa di strano, dentro di me pensavo: ‘Segato di sicuro questo lo mette nel film, cioè tutta la spazzatura, tutti gli errori, tutti gli imprevisti finiranno nel film’, perché è ovvio che il gusto di qualcuno che sta filmando senza una scrittura sia di trovare quello che succeda e quando quella cosa succede troverà una sua collocazione, ma questo è soltanto l’aspetto giocondo delle cose. Io credo che costruiremo altri eventi dal vivo e questo è un progetto work in progress, che coinvolge importanti enti, in primis la mia Regione Veneto, ma anche i consorzi di bonifica, ma anche i comitati, i cittadini che a volte sono anche in conflitto. Mar De Molada entra in un territorio che non può non essere conflittuale, perché se ci sono rivalità ci saranno conflittualità: credo che oggi la differenza tra democrazia e demagogia sia questa, cioè una democrazia non deve avere paura dei conflitti, non deve avere paura dei disaccordi, non deve avere paura dei contrasti. Se invece, per fragilità dei contendenti, si tende a buttare sotto il tappeto i conflitti – perché così non si rischia alle prossime elezioni – non affrontandoli non affronteremo progetti di lungo periodo. Non ci sono soluzioni a brevissimo termine per gli argomenti trattati con Mar De Molada, che richiede oggi di immaginare qualcosa che deve durare nel tempo: tutto questo, in qualche maniera, si fa se dei principi di solidarietà prevalgono sulle conflittualità.
Lei ha citato il territorio e il suo teatro è spesso radicato in una memoria che è collettiva e geograficamente e storicamente precisa: in che modo il paesaggio e la lingua veneti contribuiscono a costruire il senso profondo di Mar De Molada, al di là del teatrale e del cinematografico?
Un paio di giorni fa ero in teatro, ero a Forlì, e ho raccontato Bestiario Idrico riprendendo delle parti di Mar De Molada, comprese alcune parti in dialetto; sapevo benissimo di dover utilizzare lievemente quei passaggi, per non costruire un muro, ma credo che proprio perché è un linguaggio universale, quello che si usa sul palcoscenico, con un po’ di avvertenza quel ‘locale’ – in termini di lingua, in termini di esperienza – riesca a diventare universale, così come ogni artista non deve pensare di fare La Divina Commedia ma fa il suo lavoro per oggi, per adesso, per quelli che ha davanti, con la capacità di qualcuno di riprendere quello che ha ascoltato e di trasformarlo in qualcos’altro, così tutto questo diventa poesia vivente o azione civile. Non mi nascondo: questa lingua e questo territorio, arrivato a questa età, li devo usare come un bastone, devo appoggiarmi, e in qualche maniera con quest’opera sono tornato a farlo, infatti questo per me è il seguito di Vajont.
Il film si muove su un crinale sottile tra documento, racconto epico e riflessione sociale, anche civile.
Comincio da quella grande carta che in qualche immagine si vede, che abbiamo costruito noi ad hoc perché non esiste una cartografia così, infatti quella è stata fatta dando risalto ai fiumi rispetto al territorio: è realizzata con l’Istituto di Idraulica dell’Università di Padova ed è un piccolo capolavoro, infatti le persone si fermavano a guardarla e, quando smontavamo lo spettacolo, l’ultima cosa che riuscivamo a smontare era proprio quella perché, ancora un’ora dopo la fine, c’erano 200-300 persone che, con il ditino, andavano a capire come si muovessero i fiumi. Credo che questo spettacolo – che ora non so se continuare a chiamare così – in qualcuno alla fine abbia lasciato la sensazione di dire ‘questo non lo sapevo’, ed è un po’ strano, il teatro non dovrebbe essere un mezzo di informazione, però credo che su questa storia abbiamo tante informazioni ma poca consapevolezza, poca visione. Quando lei, prima, ha citato la parola ‘albero’, quella è una delle immagini che io uso per raccontare il bacino fluviale: quella metafora è molto utile perché spiega sostanzialmente la relazione che c’è tra chi sta sulle rive e qualcosa che non è fermo lì, ma si muove.
Cosa ha sentito sia cambiato nel passaggio dal corpo vivo dell’attore in teatro alla macchina da presa e che cosa, invece, è rimasto intatto?
Credo che il teatro visto dentro un mezzo terzo, che sia la televisione o il cinema, venga sempre un po’ loffio, infatti credo che Segato abbia messo poco teatro vero e proprio, perché è molto difficile guardare qualcuno che guarda il teatro sapendo che non sei stato lì; guardare un live in registrazione può servire fra vent’anni, però adesso – come cronaca fresca – serve solo a farti venire la voglia di andarti a cercare il prossimo canale. Io spero che questo lavoro ci dia l’occasione di fare altri live, di coinvolgere altri artisti, perché appunto è un progetto in progress: siamo all’inizio e, per il prossimo triennio, continueremo a lavorare, sui fiori.
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