CANNES – Neanche per la Palma d’oro, forse il massimo premio mondiale del cinema d’autore, Terrence Malick ha fatto un’eccezione alla sua proverbiale timidezza. Sul palco del Grand Theatre Lumière sono saliti al suo posto Sarah Green e Bill Pohland, due dei molti produttori del suo film, The Tree of Life. Palma d’oro ampiamente anticipata dal gran clamore mediatico sul film, un’opera metafisica e pervarsa da un forte senso religioso un po’ New Age, palleggiata da un festival all’altro per almeno due anni e che qui a Cannes ha diviso in due la critica. C’è chi dice che al presidente della giuria, il camaleontico Bob De Niro, The Tree of Life non sia neanche piaciuto troppo. Ma sono tutte chiacchiere, leggende metropolitane. Perché il grande attore americano ha semplicemente fatto cenno a una non unanimità in giuria e alla difficoltà di fare delle scelte in una selezione strepitosa. “La maggior parte di noi ha sentito che il film di Malick era ‘il’ film, per la grandezza, l’impatto e le intenzioni. Altri film erano altrettanto buoni, quindi c’è stato un po’ di compromesso, ma è normale in queste situazioni. I drammi vanno bene al cinema non fuori dallo schermo”.
Su una cosa sono davvero tutti d’accordo: il livello altissimo del concorso. Moretti, Sorrentino, Kaurismaki, Cavalier, gli esclusi eccellenti sono tanti. “Michel Piccoli è incredibile, Nanni Moretti è un regista eccezionale, Sean Penn è straordinario”, dice ancora Bob. Gli aggettivi si sprecano, la decisione è “difficile”. Eppure Mr. President è apparso rilassato e tranquillo, accolto dalla platea di un gran finale condotto dalla spumeggiante Mélanie Laurent, con una standing ovation che ha rischiato di commuoverlo di nuovo come all’inaugurazione. Il divo dell’Actor’s Studio ha attaccato a parlare in francese con un accento da Ispettore Clouseau, giocando con l’equivoco tra “champignons” e “compagnons”, funghi e colleghi. La Palma d’oro l’ha annunciata insieme alla connazionale Jane Fonda, l’inossidabile Barbarella che ha definito il momento della rivelazione “chouette”, anche lei sfoderando un po’ di francese. Con Malick i produttori avevano parlato subito prima della cerimonia al telefono: “Era eccitato e contento, anche se non sapevamo ancora che avrebbe avuto il massimo premio. È un tipo umile, timido, che rifugge la celebrità. Qualsiasi cosa avesse vinto, l’avrebbe dedicata a sua moglie e i suoi genitori”. Ed è il minimo per un film come The Tree of Life, ritratto di una devastante famiglia americana degli anni ’50 che potrebbe essere la sua.
È davvero un trionfo della famiglia, nel bene e nel male. Mai come quest’anno mancano le dichiarazioni politiche a scena aperta e l’unico brivido di impegno è il saluto rivolto ancora una volta agli iraniani Panahi e Rasoulof, assenti anche loro, ma “per volere del loro governo”. Mentre c’è molto amore per il cinema che aleggia nella sala. Emir Kusturica, chiamato ad annunciare il Grand Prix che si divide in tre, fra il turco Nuri Bilge Ceylan e i Fratelli Dardenne, vola altissimo: “Questo premio è stato vinto da Pier Paolo Pasolini, Milos Forman, Andrej Tarkovskij, Aki Kaurismaki“. E i Dardenne non si lasciano sfuggire l’assist: “Non è niente male far parte della stessa famiglia di Pasolini”. Non è un po’ troppo (o troppo poco) questo Grand Prix dopo due Palme d’oro. “No, perché ogni film è una nuova avventura e ogni premio ci aiuta a diffonderla. La cosa fantastica di Cannes è che in due giorni i giornalisti di tutto il mondo vedono le tue opere. Adesso Le gamin au vélo è nelle sale in Francia, Belgio, Italia e Svizzera e sta arrivando al suo pubblico”.
Nuri Bilge Ceylan, artista raffinato e rigoroso, con un passato da fotografo è consapevole che Once upon a time in Anatolia, con le sue quasi tre ore di durata, non è una passeggiata. “Grazie per aver selezionato un film così lungo e difficile, per averlo visto e amato. È un film pieno di dettagli, ma non serve capire tutto, come nella vita non tutto si capisce”. Sa anche che è un bel momento per il cinema turco. “Abbiamo vinto l’Orso d’oro a Berlino due anni fa, c’è una nuova generazione promettente”.
Ma c’è un altro grande assente nella serata del palmarès, è Lars Von Trier, l’uomo della gaffe planetaria su Hitler. La giuria ha deciso di andare oltre quell’incidente. Il premio a Kirsten Dunst, peraltro bravissima, è una specie di “perdono”. “Che settimana! Ringrazio il festival per aver tenuto il film in concorso e ringrazio il regista per avermi permesso di essere cosi libera in Melancholia“, ha detto la biondina di Spiderman. Ma poi non si è fatta viva in conferenza stampa per evitare domande antipatiche. De Niro conferma: “L’incidente con Lars non ha influenzato la giuria”. E il cinefilo Olivier Assayas incalza: “Melancholia è uno dei migliori film del festival, un grande film. Siamo tutti d’accordo a condannare quello che Lars ha detto, ma il suo film è un’opera d’arte e andava premiato”.
Nessun dubbio sul beniamino di casa, Jean Dujardin, il protagonista di quell’autentico gioiello che è The Artist (lo vedremo con la Bim). Accolto sul palco da Catherine Deneuve, ha accennato un passo di danza, come nel film conquistandosi un applauso davvero fragoroso. Peccato solo che non avesse con sé il terrier del film, che per molti meritava la Palme Dog. Definizione veloce di The Artist: “E’ audace fare un film che ti riporta ai tempi dei Lumière nell’epoca di Avatar“.
Grandi applausi anche per Nicolas Winding Refn, beniamino dei cinefili. Appiccicato a lui Ryan Gosling, “il mio alter ego favorito”, come lo definisce il regista danese. Che ha annunciato almeno tre nuovi progetti, tra cui un seguito di Drive e una storia che girerà a Bangkok in autunno. Scena madre per Maiwenn, la regista di Polisse, che ha avuto il Prix du Jury da Chiara Mastroianni. Ha affrontato il palco con un fiatone da infarto ringraziando tutti e soprattutto la polizia per la tutela dei minori di Parigi “che ha mi ha permesso di osservare la miseria umana da vicino”. E ha concluso con un eloquente “porca vacca!”. Per Maiwenn questo film, acquistato per l’Italia da Lucky Red, ha un risvolto amaro e personale: “I miei genitori non mi hanno molto sostenuto né incoraggiato, mi sono fatta proprio da sola e non è un caso se ho voluto raccontare i bambini maltrattati”. Caméra d’or all’argentino Las Acacias di Pablo Giorgelli, scelto tra 23 opere prime forse grazie al suo piccolo pinguino portafortuna. Per Alice Rohrwacher e Corpo celeste c’è comunque la soddisfazione di aver conquistato la critica internazionale e molti festivalieri. Un colpo di fulmine che fa ben sperare per il futuro.
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