L’orrore e lo spavento, così come il thrilling e la tensione, sono spesso associati ad atmosfere cupe, buie, invernali e piovose. Tuttavia, si può fare paura anche alla luce del sole, pensiamo a Pupi Avati e a La casa dalle finestre che ridono, e addirittura d’estate, come fece 50 anni fa Steven Spielberg con Lo squalo.
La presenza di un predatore minaccioso nelle comuni acque di una località turistica balneare è quanto di più spaventoso si possa immaginare, e sfido chiunque, dopo aver visto il film, a non provare un senso di brivido allontanandosi anche di poco dalla battigia.
Corretto dunque che il film fosse distribuito proprio durante la bella stagione, in perfetta sintonia con la sua ambientazione. Spielberg era allora poco più che ventenne, ma già in grado di portare le paure primordiali dell’uomo a galla, e pure a riva. Jaws, così il titolo originale, che significa “mascelle”, tratto dal romanzo di Peter Benchley, non fu soltanto un successo senza precedenti: fu l’inizio di qualcosa di più grande. Almeno quanto un megalodonte.
Canovaccio semplice: un enorme squalo bianco terrorizza la tranquilla cittadina balneare di Amity Island durante la stagione turistica. Per fermarlo, il capo della polizia Martin Brody (interpretato da Roy Scheider) si allea con l’esperto cacciatore di squali Quint (un magistrale Robert Shaw) e con l’oceanografo Matt Hooper (Richard Dreyfuss). Tre uomini, un mare sconfinato e un mostro invisibile: una partita a scacchi tra uomo e natura che ha riscritto le regole del thriller.
Prima di Lo squalo, infatti, l’estate era considerata una stagione morta per i cinema. Spielberg la rivoluzionò: distribuì il film in centinaia di sale contemporaneamente, puntò su una campagna pubblicitaria massiccia e, di fatto, inventò il concetto di “blockbuster” estivo. Il resto è storia: incassi record, file chilometriche, una colonna sonora iconica firmata John Williams (due sole note bastano per gelare il sangue) e un effetto psicologico devastante che svuotò le spiagge americane a tutto favore dei cinema.
Curiosamente, il terrore che Lo squalo scatenò nel pubblico fu in parte dovuto a un problema tecnico. L’animale meccanico, ribattezzato Bruce dal regista, funzionava così male da costringere Spielberg a nasconderlo il più possibile. Risultato: suspense pura, costruita con riprese soggettive e suggestione sonora. Un trucco registico che trasformò un potenziale in un capolavoro di tensione, suggellata dalla memorabile colonna sonora basata sostanzialmente sull’alternanza di due note ripetute all’infinito in maniera sempre più veloce.
E Spielberg divenne presto la potenza di Hollywood che conosciamo.
Dopo lo tsunami di paura e incassi generato dal capostipite, Hollywood non poteva certo lasciar riposare il predatore tra le onde. Così nacque la saga, con esiti altalenanti che raccontano bene come un’idea geniale possa, a furia di repliche, smussare le proprie zanne.
Il primo seguito, Lo squalo 2, arriva nel 1978. A dirigerlo non è più Spielberg – impegnato altrove – ma Jeannot Szwarc, regista di scuola televisiva. Roy Scheider torna come capo Brody, solo contro un nuovo pescecane che minaccia di nuovo l’isola di Amity. Nonostante la mancanza di originalità, il film funziona: è uno dei sequel più dignitosi mai prodotti, capace di mantenere un certo livello di tensione e di fare ottimi incassi, anche se l’effetto shock dell’originale è ormai diluito.
Con il terzo capitolo, nel 1983, si punta tutto sulla moda del momento: il 3D stereoscopico, con occhialini rossi e blu, che saltuariamente torna a far capolino nella storia del cinema per poi sparire di nuovo nel nulla.
Lo squalo 3 (o Jaws 3‑D) sposta l’azione nel parco acquatico SeaWorld, dove i fratelli Brody – cresciuti e interpretati da Dennis Quaid e John Putch – devono vedersela con un bestione intrappolato tra delfini ammaestrati e tunnel di vetro. Joe Alves, scenografo dei primi film, debutta alla regia ma il risultato è poco più che un’attrazione turistica: effetti speciali goffi, scene “sparate” verso la cinepresa per sfruttare il 3D e una trama che non spaventa nessuno. Al botteghino incassa bene all’apertura, soprattutto per la novità tecnica, ma non lascia un gran segno.
Quattro anni dopo, nel 1987, arriva Lo squalo 4 – La vendetta, diretto da Joseph Sargent. È considerato universalmente l’anello debole della catena: la vedova Brody, interpretata da Lorraine Gary, è convinta che uno squalo “personale” perseguiti la sua famiglia e lo segue fino ai Caraibi, dando vita a una trama surreale. Michael Caine, chiamato per un ruolo secondario, raccontò di aver accettato solo per poter girare alle Bahamas. Pare che non abbia mai visto il film finito, ma la casa acquistata con il cachet gli sia piaciuta parecchio. Incassi fiacchi, recensioni feroci: la saga si inabissa per sempre.
Ma se gli americani hanno spremuto lo squalo fino all’osso, anche in Italia qualcuno ha cavalcato l’onda, e anche con buoni risultato. È il caso de L’ultimo squalo, diretto nel 1981 da Enzo G. Castellari: un pescione assetato di sangue terrorizza la costa della Georgia, surfisti e windsurfer compresi, finché un vecchio lupo di mare non decide di farlo saltare in aria. Il film è talmente simile all’originale da finire presto sotto causa con la Universal: negli Stati Uniti viene ritirato dalle sale, ma nel frattempo incassa abbastanza da diventare un cult del “plagio di qualità”, per di più realizzato con un budget molto inferiore rispetto alla controparte USA e tanta fantasia.
A distanza di decenni, lo squalo cinematografico non è scomparso: è solo mutato.
Dagli anni Duemila in poi, l’orrore è diventato ironia pura: Syfy e The Asylum hanno creato la saga Sharknado, iniziata nel 2013, in cui tornado impazziti sollevano squali vivi e li scaraventano sulle città. Uno scherzo pop che mescola trash, cameo di attori nostalgici e uno humour volutamente kitsch. Più ci si spinge nell’assurdo, più il pubblico (televisivo e social) applaude.
Quanti seguiti e varianti ci siano in giro nemmeno stiamo a contarli.
Ormai il cinema di squali è diventato un genere, un simbolo di paura ancestrale e un manuale di suspense che nessun sequel, per quanto rumoroso o ridicolo, è mai riuscito a divorare del tutto.
Quando nel 2018 arrivò al cinema The Meg (Shark – Il primo squalo) qualcuno pensò: «Ancora squali giganti?». Eppure bastò vedere Jason Statham armato di arpione e muscoli per capire che questa volta non si puntava sulla paura alla Lo squalo, ma sull’intrattenimento purissimo, a metà strada tra action e monster movie.
Il film, diretto da Jon Turteltaub e tratto dal romanzo di Steve Alten, rispolvera la leggenda del Megalodonte, lo squalo preistorico più grande mai esistito. Secondo la scienza è estinto da milioni di anni, ma qui sopravvive nascosto nelle zone più profonde e inesplorate dell’oceano. La trama è quasi un pretesto: una squadra di scienziati in un laboratorio sottomarino ultratecnologico finisce per risvegliare questo colosso marino, che risale in superficie pronto a divorare tutto e tutti.
In mezzo a questa tempesta di pinne e fauci c’è Jonas Taylor, interpretato da Statham: ex palombaro di salvataggio, uomo d’azione burbero e carismatico, l’unico con abbastanza fegato per affrontare un mostro lungo venti metri. Da lì in poi è un festival di scene spettacolari, scontri acquatici, battute da duro e turisti in bikini che fuggono da una pinna grande come una barca. Il tono è dichiaratamente leggero, quasi autoironico: non fa mai davvero paura, ma diverte come un Fast & Furious subacqueo. a manuale la scena in cui Statham, faccia a faccia con il mostro, lo ricaccia in acqua con un calcio sul muso.
E infatti incassa oltre mezzo miliardo di dollari in tutto il mondo, confermando che il pubblico ama ancora i predatori giganti — purché serviti con pop corn e CGI scintillante.
Visto il successo, il sequel era inevitabile. E così nel 2023 è uscito The Meg 2: The Trench, questa volta diretto da Ben Wheatley, regista inglese abituato a film più oscuri e bizzarri. L’intento è chiaro fin dall’inizio: spingere ancora di più sull’assurdo. Jonas torna a immergersi, questa volta esplorando le profondità abissali della Fossa delle Marianne, lì dove la natura avrebbe nascosto non uno ma tre Megalodonti — e non solo. A popolare l’inferno blu ci sono creature ancora più mostruose: polpi giganteschi, rettili marini e un manipolo di cattivi umani, perché ormai uno squalo preistorico da solo non basta più.
Il risultato è un circo marino fuori scala: Statham combatte sott’acqua, guida moto d’acqua tra morsi e tentacoli, e affronta scene che sfiorano il cartoon d’azione, con risate involontarie e adrenalina a fiumi. Se nel primo film c’era un briciolo di tensione, qui si punta tutto sull’effetto over the top. Critici e puristi storcono il naso, ma il pubblico ci torna volentieri: anche The Meg 2 incassa centinaia di milioni di dollari, dimostrando che la formula del “mostro enorme + Jason Statham = estate divertente” funziona ancora.
In fondo, The Meg e il suo sequel non vogliono competere con Lo squalo di Spielberg né con i B-movie trash alla Sharknado: stanno nel mezzo, regalando un blockbuster leggero e spensierato.
Mezzo secolo dopo, Lo squalo resta un manuale di regia e marketing, un archetipo che continua a generare remake spirituali, imitazioni, videogiochi e meme. Più che un film, un monito: non serve vedere il mostro per sentirlo vicino.
Per celebrare la ricorrenza, la comunità cinefila ha organizzato molti eventi. Ne ricordiamo uno in particolare, venerdì 20 giugno, dalle 19,00, al circolo The Cineclub di Roma (gestito da Davide Manca), con la presenza dei critici Federico De Luca, Giulio Zoppello e Alessandro Malcangi, la proiezione del film e un’immancabile cena a base di pesce.
Per rievocare un’icona basta una pinna che spunta dall’acqua. E due note.
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