BERLINO Succede spesso, ai grandi festival internazionali. Ci sono i film che escono dal buio e sfondano all’improvviso le porte dell’anonimato sorprendendo pubblico e operatori per la potenza del linguaggio e del messaggio come, quest’anno, è il caso dell’iraniano Nader and Simin, A Separation -, e film su cui i riflettori sono puntati ben prima che siano stati visti, e poi a volte scoppiano come bolle di sapone. Lipstikka di Jonathan Sagall fa parte della seconda categoria. Alla Berlinale era atteso con curiosità in quanto primo film israeliano (in un concorso che, appunto, mette in campo anche un titolo iraniano) e perché in patria era stato preceduto da infuocate polemiche, nate dal fatto che nel materiale promozionale della pellicola si parlava di un paragone tra l’occupazione israeliana dei territori e l’Olocausto. In realtà in Lipstikka – coproduzione anglo-israeliana – non c’è nulla di tutto ciò (il regista lo ha smentito subito e la persona dello staff che aveva scritto il testo è stata licenziata), ma è bastato che se ne parlasse per portare il caso di fronte a una commissione parlamentare. E per avere un regista comprensibilmente sulla difensiva in conferenza stampa: “Mi sono espresso chiaramente. Quella storia è finita. Non ci sono più problemi. Il mondo ha problemi ben più gravi, vorrei che ora lo spettatore si interessasse al contenuto del film”.
Cioè all’intricato rapporto tra Lara e Inam (Clara Khoury e Nataly Attiya), due ragazze palestinesi legate, nell’adolescenza, da una profonda amicizia con risvolti sessuali. Lipstikka mostra la loro vita adulta a Londra, dove ormai hanno assunto quasi una nuova identità e dove si incontrano, a distanza di anni, facendo riaffiorare i ricordi di un passato tormentato. Soprattutto quelli del giorno in cui decisero di ignorare il coprifuoco imposto dall’esercito israeliano per andare al cinema, e furono fermate da due militari. Ciò che accadde quella sera, però, resta un confuso e ambiguo segno nella memoria. Ci fu uno stupro, o no? “Non so come commentare – dice il regista – Le cose, nella vita reale, sono sempre ambigue, mai chiare fino in fondo. Sì, è uno stupro, ma è bene che ci sia ambiguità su questo. Se questo dubbio vi sconcerta, meglio”. In realtà, nel film, questa scena cruciale viene presentata due volte in due modi diversi, come sottolinea la protagonista del film Nataly Attiya: “Si vede due volte la stessa situazione: in una avviene uno stupro, in un’altra è Inam a giocare sessualmente con il soldato. Non c’è una sola verità assoluta. E’ proprio ciò che il film vuole dire: come nella vita, tutto dipende dal modo in cui vedi le cose. Lipstikka è la storia intima di due amiche che vedono la vita in modi diversi”.
Opera seconda da regista dopo Urban Feel, Lipstikka è il frutto di ben 52 versioni di sceneggiatura e, secondo Sagall, è “una storia su degli esseri umani. Ogni sottotesto ‘politico’ – spiega – è apparente e non c’è bisogno di offrire un’interpretazione, sarà il pubblico a interpretare la storia come vuole”. D’altronde penso che qualsiasi cosa diventi ‘politica’ nel momento in cui metti più di una persona in un determinato spazio”. E’ facile, però, vedere nel film un significato metaforico, in qualche modo confermato anche dall’attrice Clara Khoury: “E’ una storia simbolica che rappresenta le donne di ogni paese oppresso. Sulle donne palestinesi ci sono tante cose da dire, le due protagoniste del film hanno una storia specifica, un ambiente familiare non facile, hanno a che fare con l’occupazione…”.
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