Lino Guanciale con il corto ‘In the Box’: “Il silenzio è al cuore del lavoro dell’attore”

L'attore ha presentato alla Mostra di Pesaro l'ultimo lavoro di Francesca Staasch in cui ricopre il doppio ruolo di attore e produttore e ci ha parlato del valore delle forme di cinema breve


PESARO – Ieri sera, per la sezione “Cinema in Piazza” di questa sessantunesima edizione della Mostra Internazionale del Cinema di Pesaro, l’attore Lino Guanciale ha presentato il cortometraggio In the Box, insieme alla sceneggiatrice e regista Francesca Staasch. Nel film interpreta Marco, un uomo alle prese con un tormento interiore che condivide con le altre due protagoniste del cortometraggio, Zoe (Giulia Schiavo) e Laura (Sara Borsarelli). Gli abbiamo chiesto di raccontarci il progetto e il suo rapporto con questa forma di cinema.

Che cosa l’ha colpita del progetto In The Box? Fin troppo spesso gli attori, soprattutto di una certa fama, tendono a snobbare la forma del cortometraggio, che viene vista un po’ troppo vicina agli esordi. Lei invece lavora spesso sui corti. Perché le piacciono? 

Conosco Francesca Staasch da molto tempo. Con lei ho girato anche un film, un lungometraggio, il suo debutto, Happy Days Motel. Ci avevo lavorato anche a teatro negli anni prima. Quindi, per me, Francesca è una persona che sta stimo, dal punto di vista autoriale, da tempo. Infatti in In the Box ho il doppio ruolo di attori e produttore con la mia piccola società di produzione, Wrong Child. Ho sempre pensato che il cortometraggio sia una dimensione cinematograficamente significativa, in modo intrinseco. Così come in letteratura esistono romanzi, lunghe novelle, racconti, nel cinema esistono il lungo, il medio e il cortometraggio, cioè, esistono storie, realtà che si possono raccontare efficacemente in lunghezze e dimensioni diverse. L’ho sempre trovato un contesto in cui è giusto costruire nuove rapporti con talenti emergenti, nella scrittura e nella regia, che possano trovare nel corto la dimensione giusta per raccontare un certo tipo di storia. È uno spazio allo stesso tempo di “scouting” di nuove relazioni, nuovi incontri artistici, ma anche uno spazio di grande libertà. Anche i registi di buona fama, nei propri percorsi, se tornano a frequentare la forma del corto, lo fanno perché è uno spazio narrativo con un valore proprio, non necessariamente prodromico alla forma del lungo. Lo frequentano perché è uno spazio in cui trovare delle libertà creative, testare delle energie creative, che è l’ideale, in qualche modo, mettere alla prova lì. Io posso senza dubbio dire di aver sempre guardato con interesse a questo mondo, sia prima, in veste soltanto di interprete, sia adesso, dal punto di vista anche di produttore.

Nei corti, nonostante la brevità della forma, la recitazione richiede molta concentrazione, perché, a differenza di film, serie o teatro, ci si trova davanti ad una forma più compatta e si ha a disposizione meno tempo per trasmettere le emozioni. Come vive il ruolo di attore nelle forme di cinema breve e quali difficoltà o vantaggi vi trova?

Nel teatro, come nelle serie o nei lunghi si ha la possibilità, in modi diversi, di costruire, in un arco diluito in un certo numero di scene, la figura che si sta costruendo. Nel corto, ovviamente quell’arco è molto limitato, quindi è necessaria una grandissima precisione, sia dal punto di vista della scrittura sia dal punto di vista della resa interpretativa. Bisogna essere immediatamente “a fuoco”, per usare una metafora fotografica, e questo per un attore può essere di grande giovamento. Credo che sia una delle dimensioni, quella del cortometraggio, in cui ho avuto anche più occasione di imparare a costruire un occhio il più efficace possibile per la messa a fuoco dell’interpretazione dei personaggi. Anche sulla costruzione del lavoro da attore io credo che sia un banco di prova molto importante, nel quale si riesce a recitare senza le pressioni che altrove si possono trovare, sempre in virtù di quella condizione di libertà produttiva di cui prima accennavo. Si potrebbe poi discutere su quanto adesso l’attuale situazione del sistema cinema metta purtroppo in discussione anche la vita stessa dei cortometraggi come dimensione professionale e artistica, ma questa è un’altra questione.

Il suo personaggio in In The Box, così come vale per le altre due protagoniste, va incontro a molti non detti, a silenzi e pause. Molti attori temono il silenzio e viene visto come un momento molto difficile da sostenere, specialmente a teatro, ma anche nel cinema. Lei come si rapporta al silenzio e come lo ha affrontato in questo film in particolare, nelle scene brevi, molto cariche di emozione e anche un po’ enigmatiche, in cui si è trovato a recitare?

Il silenzio ha il potere evocativo più grande, in realtà. Io penso che il lavoro dell’attore sia fondamentalmente quello di costruire il silenzio, di costruire quel rapporto fra platea e palcoscenico. Prendiamo il contesto teatrale come archetipo di riflessione: a teatro bisogna costruire quel silenzio a partire dal quale scatenare l’immaginazione in una mutua vertigine, sia per chi sta in scena sia per chi guarda e ascolta. Il silenzio è in realtà quel vuoto su cui insiste e si costruisce l’interpretazione degli attori, delle attrici e poi degli autori in generale, nel momento coinvolti nel fatto teatrale o cinematografico. Da quel punto di vista non rilevo differenze sostanziali nella relazione con il silenzio nelle diverse forme di recitazione. Si tratta di gestire quel momento, e nel caso del cinema la gestione non è più di una persona soltanto, perché un silenzio d’attore diventa anche un silenzio del regista e del montatore. Quel silenzio lì è proprio il nodo, il foglio su cui si scrive il patto tra chi guarda e chi agisce, tra spettatori e film. È una prova di enorme fiducia riuscire a stare nel silenzio che gli attori e il film ti propongono. Dall’altra parte è una grossa responsabilità fare in modo che non quei momenti arrivi come un vuoto e basta, ma come una dimensione dello spazio e del tempo significativa al di là del linguaggio verbale. È una sfida, dunque, riuscire a costruire il giusto silenzio. Quello che mi ha affascinato della scrittura di Francesca in questo corto era proprio questo: quanto l’importanza fosse spostata sul non detto piuttosto che sulla parola in sé, perché ritengo che quella sia una dimensione che amplifica l’importanza del lavoro, anche degli interpreti.

Lei è molto attivo come attore e nel sociale, dove è coinvolto in cause importanti. Anche questo corto è impegnato in un certo senso, infatti tratta questioni fin troppo frequenti come la solitudine e l’incomprensione interpersonale in modo realistico, senza abbellimenti. Pensa che affrontare questioni di rilievo si tratti di un dovere morale del cinema e di chi lo fa o è una questione di scelte e tendenze personali?

Secondo me è tutto legato a dimensioni molto soggettive, nel senso che da che mondo è mondo, il lavoro artistico può essere più o meno legato ad un coté di impegno, di interesse sociale, culturale o politico. È una cosa che non va vissuta come una forzatura anche perché, credo, si nota quando c’è un fake engagement, quando le cose sono fatta perché un po’ si devono fare. Così come dagli artisti non si deve pretendere che abbiano un’opinione o una posizione su qualunque cosa, dall’altro canto non è detto che gli artisti per forza debbono offrire questa opinione al mondo. Dipende anche da che tipo di funzione si attribuisce al proprio mestiere fin dagli esordi. Poi è normale che nella vita si vivano anche fasi, di impegno o di disimpegno, però io a quello credo poco, nel senso che questa necessità le si sente o meno, non la ordina il medico. Inoltre penso che sia fondamentale, una volta che si attribuisce questa dimensione al proprio lavoro, non abbandonarla. Se è parte di sé, allora sentire quella responsabilità etica significa non dover mai censurare se stessi. Il rischio più grave infatti è quello dell’autocensura, in primo luogo, seguito poi dalla censura che impongono gli altri. Non è un dovere dell’arte parlare al mondo di come il mondo sarebbe bello funzionasse o di ciò che non funziona. È un diritto dell’artista però nel momento in cui sente di doverlo fare, di poterlo esprimere come parte connaturata al suo mestiere e senza che nessuno glielo vieti. 

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