L’infinita voglia di passare dalla carta al set

In occasione dell’uscita di L’infinito, esordio alla regia di Umberto Contarello — sceneggiatore per maestri come Sorrentino e Bertolucci — un viaggio tra gli autori che hanno scelto di passare dietro la macchina da presa


Chi racconta una storia la vive due volte: quando la immagina e quando la filma. Con L’infinito, in uscita il 15 maggio, Umberto Contarello compie un salto che ha il sapore dell’inevitabile: dopo aver scritto per Paolo Sorrentino, Bernardo Bertolucci, Gabriele Salvatores, e aver dato parole e anima a molti altri film italiani, ottenendo i riconoscimenti più importanti, si sposta dietro la macchina da presa per raccontare la solitudine di uno sceneggiatore. Ma non è una solitudine sterile o malinconica: piuttosto quella, feconda e inquieta, dell’artigiano della parola che si sente spettatore della propria invisibilità.

Un paradosso? Al contrario. È la messa in scena di una vocazione, anzi, di una rivendicazione: quella del diritto dell’autore a toccare con mano ciò che prima ha solo evocato con l’inchiostro. Un gesto che è insieme confessione e sfida, quasi a dire: questa storia non posso più affidarla a nessun altro, nemmeno a un amico, nemmeno a un maestro. “Tocca a me, e solo a me, raccontarla fino in fondo”.

La seconda vita

Una seconda vita, dunque, per una storia già vissuta sulla pagina: perché chi scrive, immagina; ma solo chi dirige può davvero vedere. “Chi racconta una storia la vive due volte: quando la immagina e quando la filma”  diventa il manifesto silenzioso di tanti sceneggiatori-registi: la necessità di tornare nei propri mondi, e viverli ancora, con la luce addosso.

Contarello non è il primo, né sarà l’ultimo. Da Preston Sturges a Charlie Kaufman, da Billy Wilder a Quentin Tarantino e Oliver Stone, il cinema è pieno di penne che si sono fatte occhi, di scrittori che si sono fatti registi. Talvolta per passione, talvolta per stizza, spesso per amore di un’idea che non si voleva lasciare in mano a nessun altro.

Nel cuore dell’età d’oro di Hollywood, fu proprio Sturges a inaugurare la tendenza: accettò 10 dollari pur di dirigere Il grande McGinty e vinse l’Oscar. Billy Wilder, dopo aver scritto Ninotchka, si stancò di vedere i propri copioni alterati dai registi e passò all’azione: Frutto proibito fu il suo debutto dietro la cinepresa e da lì il resto è leggenda. John Huston firmò da solo Il mistero del falco, noir spartiacque. Da allora, l’idea di scrivere e dirigere il proprio film divenne, per molti, non un atto di ambizione ma di necessità.

Il set, infatti, è il luogo dove le storie si fanno carne. E se scrivere è costruire un mondo, dirigerlo è abitarlo. Il passaggio da uno stato all’altro richiede coraggio e, spesso, un pizzico di esasperazione. Chi ha provato a vedere stravolte le proprie pagine sul set altrui, lo sa: a volte serve impugnare il megafono per non perdere la propria voce.

New Hollywood, Old story

Con la New Hollywood, la figura dello sceneggiatore-regista acquista una nuova aura: quella dell’autore totale, dell’artista che non si accontenta più di costruire mondi su carta ma pretende di abitarli, modellarli, illuminarli. Paul Schrader, mente dietro Taxi Driver, sente il bisogno di dare corpo alle proprie ossessioni: debutta con Blue Collar, esplode con American Gigolò, scolpendo un cinema nervoso, pulsante, in cui ogni parola scritta si rifrange in immagini tese, febbrili.

Oliver Stone, reduce da esperienze dirette in Vietnam, non può che voler raccontare di persona Platoon e Nato il quattro luglio: il suo cinema nasce da una ferita aperta e, per questo, non delegabile. La scrittura è confessione, la regia diventa espiazione.

Quentin Tarantino, commesso di videoteca con scritture esplosive nel cassetto, capisce presto che solo lui può dirigere i propri dialoghi, plasmarne ritmo e gesti: da Le Iene in poi, ogni sua regia è il riflesso di una scrittura incendiaria, ma anche la prova che certi film possono nascere solo dalla fusione alchemica tra verbo e visione. Questi autori non cercano il controllo: cercano coerenza tra ciò che immaginano e ciò che mostrano. E trovano nel passaggio alla regia non un privilegio, ma una necessità vitale.

Ma il percorso non è riservato solo ai registi rockstar. Nora Ephron, maestra della commedia, sceglie di proteggere il tono sottile delle sue storie d’amore passandole in prima persona alla regia. Nascono così Insonnia d’amore e C’è posta per te, film che hanno il ritmo e il respiro preciso di chi li ha immaginati parola per parola.

Oggi, il fenomeno si rinnova con nuove forme. Charlie Kaufman dirige Synecdoche, New York, film così stratificato che solo il suo autore avrebbe potuto sbrogliarne la matassa. Aaron Sorkin porta sullo schermo Molly’s Game, satura di dialoghi come una partitura jazz. Guillermo Arriaga, dopo la rottura con Iñárritu, decide di firmare The Burning Plain per prendersi cura delle proprie storie senza mediazioni.

E in Francia, Jacques Audiard, figlio d’arte e sceneggiatore prolifico negli anni Ottanta, è diventato nel tempo uno dei cineasti più raffinati e audaci del cinema europeo. Il suo passaggio alla regia non è stato un colpo di testa, ma l’evoluzione naturale di una scrittura già visiva, asciutta, capace di raccontare con le omissioni più che con le parole. Con film come Il profeta, Un sapore di ruggine e ossa e Dheepan, Audiard ha dimostrato di saper trasportare il proprio rigore narrativo in uno stile registico vibrante e profondamente umano, costruendo storie dove il non detto pesa quanto il dialogo, e dove ogni scelta visiva nasce da una necessità drammaturgica. Il suo percorso conferma che, quando la scrittura è così radicata nel corpo del racconto, diventa quasi inevitabile che la mano che scrive voglia anche dirigere lo sguardo.

Non sempre tutto funziona. A volte i risultati sono incerti, o il mestiere della regia si rivela più duro del previsto. Ma anche nei tentativi meno riusciti si intravede una tensione autentica: quella di chi vuole attraversare tutta la catena della creazione, dal primo fotogramma mentale all’ultima inquadratura reale.

In fondo, ogni sceneggiatore che dirige tenta una piccola rivoluzione: trasformare la propria voce in visione. E quando ci riesce, quella visione non somiglia a nessun’altra.

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11 Maggio 2025

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