L’assenza come corpo: nel suo esordio alla regia Lilja Ingolfsdottir compone un ritratto disturbante eppure intimo di una donna che implode nel vuoto relazionale del quotidiano.
La solitudine dei non amati (Loveable) non si limita però a raccontare una crisi coniugale, ma lavora per stratificazioni: il trauma privato s’inscrive in un tessuto familiare ordinario, che l’inquadratura rende via via sempre più estraneo e opprimente. È un cinema che non osserva, ma che interroga lo spazio dell’identità a partire dal suo collasso, e così l’inquadratura si fa zona di attrito.
Helga Guren, nel ruolo di Maria – quarantenne che si destreggia tra la cura di quattro figli e una carriera lavorativa impegnativa, con il marito Sigmund (Oddgeir Thune) spesso assente per lavoro, meccanica che obbliga lei a gestire da sola le responsabilità quotidiane – regge l’intero impianto narrativo con un’interpretazione rarefatta, calibrata sull’oscillazione tra contenimento emotivo e frantumazione interna. Ingolfsdottir la filma in costante prossimità, scegliendo lunghe focali e profondità di campo ridotte, che isolano la protagonista nello spazio, anche quando fisicamente circondata dai figli o dal marito. Lo sguardo dell’autrice costruisce un campo visivo che funziona come specchiamento del trauma: il mondo esterno non è più leggibile, ma deformato da una percezione scissa, filtrata da ansia e senso di inadeguatezza.
Quello che colpisce è l’uso narrativo dell’assenza: il marito non è soltanto assente in termini narrativi, ma è anche cinematograficamente rimosso. Le sue apparizioni sono ellittiche e, quando è presente, la macchina da presa tende a negargli centralità o chiarezza: resta sfocato, tagliato, spesso muto. Questa scelta diventa discorso: Sigmund non è un antagonista attivo, ma un vuoto che struttura lo spazio psichico di Maria.
La domesticità, così, assume l’essenza di un campo di battaglia: il film destruttura la rappresentazione della maternità e della domesticità appunto, rifiuta sia l’idealizzazione che il melodramma. Non c’è eroismo nella gestione quotidiana della casa e dei figli, ma una ripetitività angosciata, che schiaccia Maria in una routine somigliante a una sindrome da stress post-traumatico, più che a una vita familiare. La visione enfatizza questo aspetto attraverso una mise-en-scène precisa e sobria: ambienti ordinari, illuminati da una luce naturale che si fa via via più opaca, suggeriscono un’esistenza che sta perdendo aderenza con se stessa.
Il film non manca di simbolismo, infatti ogni stanza della casa assume la funzione di uno stato mentale. La cucina, spazio di nutrimento e aggregazione, è filmata come un’officina di piccole crisi; il corridoio, inquadrato più volte frontalmente, si fa passaggio verso il nulla, ripetizione cieca del gesto. È un cinema della stasi, non dell’evento: qui il trauma non esplode, ma lavora carsicamente, in silenzio.
S’innesca poi un secondo livello di lettura con l’intervento della terapeuta (Heidi Gjermundsen): le sedute non servono a far avanzare la trama, ma a introdurre una riflessione meta-filmica sulla possibilità di dominare il dolore. La terapia diventa il luogo in cui si esplicita il conflitto tra realtà interiore e funzione sociale del soggetto donna. Maria non è malata: è inadatta a un ruolo che la esclude mentre le impone di aderirvi. Qui il film dialoga sottilmente con la lezione di Chantal Akerman e con il minimalismo scandinavo (da Scenes from a Marriage a The Worst Person in the World), ma senza cedere al compiacimento estetico. Ingolfsdottir mostra piuttosto un’adesione etica alla sofferenza del soggetto: il suo sguardo è sempre empatico, ma mai salvifico.
La solitudine dei non amati lavora sul silenzio e sull’indicibile, creando un cinema del non-detto. Non c’è catarsi, né redenzione. C’è piuttosto la lenta e faticosa emersione di un desiderio di soggettivazione, che passa per la disgregazione e la solitudine. In questo senso, il titolo italiano – a differenza dell’originale Loveable – coglie una sfumatura fondamentale: non si tratta solo di sentirsi non amati, ma di occupare uno spazio esistenziale che escluda la possibilità stessa dell’amore.
Il film esce in sala dal 30 aprile con Wanted Cinema.
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