La seduzione del primitivo. Paul Gauguin secondo Resnais, Cassel e Giannini

Nato il 7 giugno 1848, il pittore parigino cresciuto in Perù ha incarnato tensioni etiche ed estetiche ancora attuali: l’artista in fuga dall’Occidente, il desiderio dell’“altro” come sogno e violenza, il peso del colonialismo. Tra gli interpreti sul grande schermo anche Kiefer Sutherland accanto a Nastassja Kinski


È stato uno dei pittori più audaci e controversi del Post-Impressionismo, nato a Parigi il 7 giugno 1848 e cresciuto in parte in Perù: lasciò la carriera di agente di cambio per dedicarsi all’Arte, stringendo legami con artisti come Cézanne e Van Gogh: lui è Paul Gauguin, il cui esilio volontario fu nei Mari del Sud, in particolare a Tahiti e nelle Isole Marchesi, lì dove s’è trasformato in icona elaborando un linguaggio pittorico originale, fatto di colori innaturali, simbolismo arcaico e figure ieratiche, dando vita a un’estetica che ha influenzato profondamente l’arte del Novecento.

Raccontare Gauguin al cinema significa confrontarsi con una figura che incarna tensioni etiche ed estetiche ancora attuali: l’artista in fuga dall’Occidente, il desiderio dell’“altro” come sogno e violenza, la seduzione del primitivo, il peso del colonialismo. La sua vita — errante, drammatica, ossessiva — offre un intreccio potente tra visione artistica e inquietudine morale. Gauguin continua a sfidare chiunque voglia rappresentarlo perché non fu solo un pittore, ma un enigma visivo e umano.

È probabilmente il Gauguin cinematografico più famoso, quello di Vincent Cassel in GAUGUIN – VIAGGIO A TAHITI (2017) di Édouard Deluc, che racconta il primo soggiorno tahitiano nel 1891, ispirato al suo diario Noa Noa. L’interpretazione di Cassel è la forza centripeta del film: lontano da qualsiasi tentazione agiografica, l’attore francese plasma un Gauguin sofferente, visionario e ruvido, il cui sguardo costantemente febbrile traduce l’ossessione per l’assoluto. Cassel evita con decisione il manierismo: la sua fisicità — emaciata, muscolare, segnata dalla fatica — costruisce un corpo che diventa metafora del logoramento psichico e morale del personaggio. La recitazione è fatta di sguardi obliqui, di silenzi interrotti da esplosioni verbali, di una rabbia compressa che deflagra in gesti improvvisi; riesce a trasmettere l’idea di un uomo che dipinge non per comunicare, ma per resistere. Il suo Gauguin non è un profeta, ma un dannato, tragico nella sua inconsapevolezza. E Deluc firma un ritratto introspettivo e malinconico di Paul Gauguin, privilegiando le zone d’ombra del mito più che la glorificazione pittorica. La performance asciutta e febbrile di Cassel gli permette di restituire l’irrequietezza esistenziale di un uomo in fuga dall’Occidente, ma incapace di redimersi nella natura incontaminata. I paesaggi di Tahiti, filmati con uno sguardo che rifugge la cartolina esotica, diventano la metafora di un paradiso irraggiungibile, mentre la regia insiste su una narrazione ellittica e contemplativa che privilegia il non detto.  Non è un biopic convenzionale, ma un tentativo audace — e imperfetto — di entrare nella mente dell’artista.

In principio, è stato un cortometraggio di Alain Resnais a raccontare questo artista: PAUL GAUGUIN (1949) fa parte di una serie di film sull’Arte e utilizza le opere e gli scritti dell’artista per tracciare il suo percorso creativo. In questo film giovanile, Resnais compone un poema visivo austero ed elegante, in cui le opere di Gauguin sono animate da una voce fuori campo rarefatta e da un montaggio lirico. Non c’è racconto, né giudizio: solo un tempo sospeso in cui la pittura diventa pensiero e materia filmica. Il biografismo è assente, e l’occhio di Resnais si concentra sulla relazione tra forma e luce, tra esotismo e astrazione; un esercizio di stile che anticipa, in nuce, la riflessione del cineasta sulla memoria e sull’immagine. Una perla seminale per cinefili e storici dell’Arte. Nel cortometraggio, la voce narrante è volutamente disincarnata, anonima, quasi sacrale. Non è una voce che interpreta, ma che trasfigura: recita frammenti degli scritti di Gauguin come fossero versi liturgici, in tono basso, solenne, ipnotico. È un’assenza-presenza che guida all’interno delle immagini pittoriche, come se ogni quadro fosse una preghiera visiva. L’attore che narra (probabilmente un doppiatore francese, non accreditato) non tenta alcuna psicologizzazione del personaggio, ma diventa puro medium del testo e delle immagini. Un’interpretazione antinaturalistica, in linea con l’estetica astratta e intellettuale del primo Resnais.

Un’altra voce, quella di Adriano Giannini, per GAUGUIN A TAHITI – IL PARADISO PERDUTO (2019), docufilm italiano diretto da Claudio Poli, musiche di Remo Anzovino. Un viaggio visivo tra Tahiti e le Marchesi, con approfondimenti di esperti internazionali. Giannini presta la voce a Gauguin con una timbrica profonda, che cerca di restituire tanto la sensualità del ricordo quanto l’asprezza dell’autoreclusione. L’interpretazione vocale è misurata, sobria, e talvolta troppo levigata: più che un uomo in crisi, sembra narrare il diario di un esteta malinconico. Tuttavia, questo tono permette di entrare in risonanza con l’estetica impeccabile del film, fatta di immagini iperrealistiche e musiche evocative. L’identificazione tra voce e pittura risulta coerente con il progetto del docufilm, anche se resta sul crinale tra intensità e compiacimento. Giannini restituisce l’eco di un Gauguin cinematografico, distante e suggestivo come una figura mitica. Prodotto da Nexo Digital, questo film sposa la forma spettacolare con l’intento divulgativo, restituendo le tappe del soggiorno tahitiano di Gauguin con grande rigore visivo. La voce narrante guida lo spettatore tra archivi, testimonianze di storici dell’Arte, e riprese in alta definizione dei luoghi e delle opere. Il montaggio alterna con ritmo calibrato evocazione e analisi, con un risultato raffinato anche se talvolta patinato. Un prodotto raffinato, che però mantiene le distanze dall’ambiguità morale del personaggio.

Con PARADISE FOUND (2003), interpretato da Kiefer Sutherland e Nastassja Kinski, si narra la transizione di Gauguin da agente di cambio a pittore, fino al suo viaggio in Polinesia. Il regista Mario Andreacchio, con Sutherland nei panni di un artista dolente e idealizzato, imbocca la via del biopic classico, sacrificando la complessità del personaggio sull’altare della linearità narrativa. L’attore britannico, noto per ruoli intensi e interiorizzati, affronta il personaggio con un registro contenuto, quasi distaccato, che finisce per appiattire le contraddizioni vitali del pittore; il suo Gauguin è un uomo ferito, ma anche sorprendentemente docile: un’anima inquieta sì, ma stemperata da un pathos borghese che contrasta con la radicalità del vero artista. La recitazione è corretta, talvolta raffinata nei gesti e nei cambi di tono, ma manca il senso del rischio. Sutherland sembra trattenuto da una sceneggiatura che privilegia la parabola edificante alla vertigine psicologica: il risultato è un ritratto privo di profondità selvaggia, imbrigliato nella retorica del “genio-incompreso”. La messa in scena cinematografica è elegante ma inerte, e la regia sembra più interessata a ricostruire un feuilleton biografico che a sondare le tensioni estetiche e morali dell’artista. L’esotismo è presentato come pura scenografia, più vicino all’immaginario pubblicitario che al trauma coloniale o al desiderio d’assoluto che animava Gauguin. Un’operazione scolastica, che manca il bersaglio emotivo e teorico.

È poi il David Carradine di Kill Bill a prestare a Gauguin un’intensità irregolare nel film tv americano IL SOGNO DI TAHITI (Fielder Cook, 1980), che ambisce a raccontare l’artista “selvaggio” secondo la retorica dell’eroe tragico e incomprenso. Carradine abita il ruolo con una fisicità scarna e una gestualità quasi teatrale, quasi rituale. Il suo Gauguin è più uno sciamano che un pittore, costruito come uomo in perenne contatto con il sacro e l’irraccontabile. La recitazione, a tratti espressionista, risente però della grammatica televisiva dell’epoca: i dialoghi sono enfatici, l’espressività facciale costantemente sopra le righe, i toni talvolta declamatori. Tuttavia, Carradine introduce un elemento interessante: una certa malinconia latente, una stanchezza esistenziale che, nei momenti di silenzio, riesce a emergere con potenza. È un Gauguin visionario, forse eccessivo, ma mai banale. La narrazione è classica e didascalica, sostenuta da una colonna sonora enfatica e da dialoghi che spesso scivolano nell’enunciazione pedagogica. Tuttavia, nella sua ingenuità televisiva, il film offre uno spaccato interessante di come la figura di Gauguin sia stata rielaborata nell’immaginario popolare tardo-novecentesco: l’artista come ribelle spirituale, più che come soggetto problematico. Un documento utile, ma distante dalle tensioni del cinema d’autore.

Infine, altri due doc raccontano Paul Gauguin: GAUGUIN: THE FULL STORY (2003) diretto da Waldemar Januszczak, che offre una panoramica completa della vita dell’artista, dalle sue opere alle controversie personali; e GAUGUIN: A DANGEROUS LIFE (2019), che affronta le contraddizioni dell’artista, esplorando sia le sue opere che le sue relazioni personali e il contesto coloniale.

Il primo più che un documentario è un’indagine storico-critica che mette a nudo le ambiguità dell’uomo e dell’artista. Januszczak guida lo spettatore attraverso le svolte biografiche e formali di Gauguin con uno stile brillante, ironico e provocatorio, ponendo in discussione l’aura romantica che circonda il pittore. Il ritmo è serrato, l’approccio multidisciplinare, e l’interrogativo etico sull’opera di Gauguin — tra appropriazione culturale e genialità visionaria — resta sospeso, come un filo teso tra arte e responsabilità. Il film è narrato e condotto da Waldemar Januszczak stesso, non c’è un attore in senso tradizionale, ma il regista si fa anche protagonista-narratore con uno stile spregiudicato e brillante. La sua voce narrante è incisiva, talvolta irriverente, e conferisce al documentario un tono ironico e provocatorio. Januszczak interpreta Gauguin indirettamente, proiettando su di lui domande scomode e riflessioni taglienti, come un investigatore che insegue un colpevole sfuggente. La sua presenza è fortemente performativa: abita gli spazi, interagisce con le opere, si confronta con le fonti iconografiche con una fisicità da reporter culturale. In questo senso, la narrazione è già messa in scena, e Januszczak diventa il doppio inquieto dell’artista, oscillando tra ammirazione e giudizio, per questo visivo che stimola il dibattito più che offrirne una sintesi.

Mentre il doc del 2019 si distingue per il coraggio con cui affronta le zone oscure dell’artista: il sessismo, la colonialità, la mitologia dell’artista-martire. Le immagini dell’Oceano Pacifico non sono sfondo idilliaco ma strato di sedimentazione storica e politica. L’approccio è critico, talvolta didascalico, ma puntualmente illuminante: la figura di Gauguin è decostruita pezzo per pezzo, con un uso efficace delle fonti, delle lettere, delle opere. Il risultato è un ritratto inquieto e spiazzante, che costringe lo spettatore a riconsiderare l’intera tradizione della pittura modernista occidentale. In questo documentario, la figura di Gauguin è restituita attraverso un montaggio eterogeneo: letture recitate dei suoi scritti, testimonianze di storici dell’arte e immagini d’archivio. L’attore che presta la voce al pittore adotta un tono seduttivo e autoreferenziale, modulato sul narcisismo del testo originale (Noa Noa in particolare). La recitazione è calibrata per evidenziare la frattura tra la lirica della natura e la brutalità del soggetto: la voce è calda, persuasiva, ma punteggiata da sospensioni ironiche che ne tradiscono la pericolosità. Il risultato è efficace: lo spettatore è sedotto e disturbato insieme. L’attore non interpreta Gauguin, lo smaschera attraverso l’amplificazione delle sue stesse parole.

Il cinema, nel confrontarsi con la figura di Paul Gauguin, ha oscillato tra seduzione visiva e inquietudine etica: la sua rappresentazione filmica ha attraversato epoche e codici, restituendo di volta in volta un’immagine diversa dell’artista, martire romantico, ribelle visionario, colonizzatore estetico, profeta inquieto. Nei biopic narrativi, soprattutto quelli di taglio più tradizionale come Paradise Found o Il sogno di Tahiti, Gauguin viene assimilato alla figura del genio tormentato, risolto secondo le coordinate di un dramma biografico lineare. Le interpretazioni attoriali — da Sutherland a Carradine — tendono a smussarne le contraddizioni, a favore di un personaggio quasi elegiaco, sospeso tra l’inquietudine artistica e l’esotismo poetico. Al contrario, nei film più recenti e problematici come Gauguin – Viaggio a Tahiti e A Dangerous Life, emerge una figura più ambigua, attraversata da impulsi autodistruttivi, desideri di fuga e tensioni morali. Vincent Cassel, in particolare, disegna un Gauguin crudo e corporeo, scrostato dall’agiografia, mentre i documentari critici — in primis quelli di Waldemar Januszczak e Claudio Poli — mettono in discussione la legittimità stessa del mito gauguiniano, smascherandone le implicazioni coloniali e sessiste.

Anche la voce ha un ruolo fondamentale in questa polifonia di sguardi: dai toni enfatici dei narratori degli Anni ’80 alla sottile ambiguità di Adriano Giannini, fino al lirismo rarefatto del giovane Resnais, il cinema ha usato la parola per costruire un Gauguin spesso più letterario che umano.

Il cinema non ha restituito un’unica immagine di Gauguin, ma ha rivelato quanto la sua figura — proprio come la sua pittura — sia campo di battaglia simbolico tra Occidente e Altro, tra Arte e ideologia, tra desiderio e responsabilità. Il risultato è un ritratto frantumato, dove la biografia diventa specchio delle tensioni irrisolte tra estetica e storia.

Tra le opere pittoriche di Paul Gauguin, ecco una sintesi che evidenzi l’evoluzione del suo stile, dal Naturalismo Post-Impressionista fino alla sintesi simbolista e al cosiddetto Primitivismo:

La ronde des petites Bretonnes (1888), Vision après le sermon (1888), Le Christ jaune (1889), La belle Angèle (1889), Fatata te Miti (1892), Manao Tupapau (1892), Nafea faa ipoipo? (1892), D’où venons-nous? Que sommes-nous? Où allons-nous? (1897–98).

 

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07 Giugno 2025

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