CANNES – La realtà si disvela per stratificazioni minime, come nei gesti ripetuti, nelle mani che stringono una borsa di plastica o sfiorano un volto stanco, questo accade nel cinema dei fratelli Dardenne e in Jeunes Mères, titolo con cui partecipano in Concorso a Cannes 2025, storia in cui tornano a interrogare la società europea attraverso la marginalità; qui lo sguardo si posa su uno dei nuclei più vulnerabili e silenziosi della contemporaneità: la maternità giovane, solitaria, impoverita.
L’etica dei Dardenne è, da sempre, un’etica del corpo. Qui, però, il corpo è quello di chi accoglie un altro corpo, e la posta in gioco è altissima. Le mani delle protagoniste sono appunto il vero filo conduttore della narrazione: mani che nutrono, lavano, reggono, si tendono per chiedere, si chiudono per proteggere; la camera spesso si sofferma sul ritmo del gesto, sulla pelle, sul sorriso involontario che sfugge. In quel momento, il film si apre a una possibilità: che anche nella fatica più dura si nasconda una gioia misteriosa e irriducibile.
I Dardenne costruiscono uno spazio narrativo e visivo che, come sempre nel loro cinema, predilige la prossimità fisica, l’inseguimento del corpo: qui la camera è ancora più partecipe, si muove con il respiro delle protagoniste, si arresta quando loro si arrestano, osserva gli oggetti domestici con una reverenza quasi liturgica. Una culla montata a metà, un frigorifero vuoto, un pacco di pannolini lasciato su un tavolo: ogni dettaglio racconta un’esistenza in bilico.
La vicenda, ambientata in una periferia disadorna e disidratata d’affetti, segue la traiettoria incerta di Jessica, Perla, Julie, Ariane et Naïma, una manciata di giovani donne tra i venti e i trent’anni alle prese con la gravidanza o con una maternità appena iniziata. Non c’è sentimentalismo in questa esplorazione, c’è invece una fiducia nell’immanenza della sofferenza e nella possibilità che essa diventi relazione. Il titolo stesso è un ossimoro taciuto: Jeunes Mères evoca una freschezza biologica che si scontra con una consunzione sociale, economica, affettiva.
Le madri giovani del film vivono un tempo doppio: quello biologico della cura del neonato e quello simbolico dell’attesa di una vita possibile. I Dardenne rendono visibile il conflitto tra questi due tempi attraverso una messinscena che non tematizza mai in modo didascalico il disagio, ma lo lascia affiorare nel quotidiano. Non c’è pietismo, ma un’attenzione chirurgica alla fatica della sopravvivenza. In questo senso, Jeunes Mères può essere letto come un film politico nel senso più alto: non come denuncia, ma come presa di posizione etica. La maternità è filmata non come un destino biologico, ma come una costruzione relazionale. Non ci sono padri, o meglio: ci sono come ombre, come assenze, eppure il film non ne fa una condanna, ma una constatazione per cui è la madre, in questo universo, a essere insieme ferita e fondamento.
Jeunes Mères intreccia anche la questione intima della cura con le logiche feroci del mercato. Le protagoniste vivono in un mondo in cui ogni gesto ha un prezzo: il latte artificiale, il passeggino, perfino l’attenzione delle istituzioni sociali. La maternità, nel film, è esposta come un campo di negoziazione tra l’umano e l’amministrativo, tra l’amore e la burocrazia. Eppure, in questa tensione, i Dardenne riescono a scoprire, ancora una volta, un’energia di resistenza. Jeunes Mères è un film che crede nella possibilità che la solidarietà non sia un concetto astratto, ma una pratica quotidiana, fatta di piccoli atti, di alleanze improvvisate, di affetto che si contrae e si allarga come un respiro.
Dal punto di vista stilistico, il film conferma il realismo sobrio, l’uso del sonoro ambientale, la predilezione per attori non professionisti o poco noti che ci sono da parte dei Dardenne. Ma c’è un elemento nuovo: una tenerezza che non è concessione, ma rivelazione. I Fratelli, che spesso hanno mostrato personaggi soli, qui filmano la possibilità di un’intimità collettiva, anche se fragile, anche se transitoria.
Jeunes Mères è un atto di ascolto verso chi non ha voce. Ed è, soprattutto, un’invocazione silenziosa: che il mondo si lasci finalmente ferire dalla responsabilità dell’altro.
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