Jackson Pollock: “Dipingere è azione di autoscoperta. Ogni buon artista dipinge ciò che è”

I concetti di Espressionismo Astratto e Action Painting funzionano non solo come correnti artistiche ma come specchi dell’animo del pittore, nato il 28 gennaio 1912


Se il cinema sembra aver reso accessibile l’universo di Jackson Pollock (28 gennaio 1912 – 11 agosto 1956) immortalando il gesto pittorico come forma di espressione quasi primordiale, talvolta ha rischiato però di ridurre questo figlio nato tra le Montagne Rocciose del Wyoming da famiglia agricola a uno stereotipo romantico, ridondando sul genio autodistruttivo, incapace di gestire i demoni interiori. Un film come Pollock di e con Ed Harris ha la profondità di riuscire a trasmettere l’intensità fisica e emotiva del processo creativo, eppur tende un po’ a enfatizzare i lati drammatici dell’esistenza, mettendo in un cono più buio l’impatto rivoluzionario del suo linguaggio pittorico. Ancora, un doc come Who the $&% Is Jackson Pollock? sposta il focus sull’autenticazione e sul mercato dell’arte, circoscrivendo il pittore a oggetto di dibattito, più che a soggetto artistico.

“Dipingere è azione di autoscoperta. Ogni buon artista dipinge ciò che è”: questa frase rispecchia come per Pollock l’atto della pittura fosse un processo d’introspezione, in cui l’artista esplora e rivela la propria essenza attraverso l’arte.

Pollock nel cinema emerge come un prisma attraverso cui esplorare il genio dell’arte e i conflitti personali di uno degli artisti più influenti del XX secolo e le storie su grande schermo si sono concentrate sul dualismo tra il creativo visionario e l’essere umano tormentato, un contrasto che rispecchia il dinamismo delle sue opere: i sensi dei concetti di Espressionismo Astratto e di Action Painting – di cui è stato esponente – funzionano non solo come correnti artistiche ma evidentemente sono specchi dell’animo del pittore. L’attenzione quasi voyeuristica sulla sofferenza intima e sulle relazioni affettive ha permesso però di umanizzare l’ingombrante talento, certo pagando un po’ il prezzo di ridurre il contesto storico e intellettuale in cui si è formato. Solo in opere più poetiche come Jackson Song s’intravede il tentativo di restituire il senso di vuoto lasciato dall’artista, senza sovraccaricarlo di interpretazioni psicoanalitiche o biografiche. Insomma, il cinema ha spesso preferito raccontare il mito più che l’uomo, con narrazioni intermittenti tra seduzione e incompletezza.

Dici Pollock e dici Ed Herris, per il pubblico più pop: il film biografico del 2000, POLLOCK appunto, diretto e interpretato da Ed Harris, con Marcia Gay Harden nel ruolo della moglie Lee Krasner (per cui ha vinto l’Oscar come Miglior Attrice Non Protagonista), esplora la biografia e la carriera, evidenziando le lotte psichiche e professionali. Con una regia rigorosa e un’interpretazione intensa, Harris s’immerge con maestria nei tormenti esistenziali e creativi di Pollock e l’attore si spoglia di ogni artificio per incarnare il pittore in una performance di favolose fisicità e vulnerabilità. La sua interpretazione è una danza tra caos e controllo, proprio come le pennellate che definiscono il suo stile sulle tele. Harris, con sguardi inquieti, gesti incerti fuori dal contesto creativo, e cieca furia che si riversa sulla tela, rende palpabile il conflitto tra il genio e l’uomo. La scelta di dirigere e interpretare amplifica l’intensità del risultato: Harris sembra stabilire un legame personale con Pollock, costruendo un ritratto autentico. Per alcuni critici, sebbene il film eccella nel catturare il lato distruttivo dell’artista, sacrifica in parte il lato visionario, concentrandosi più sulla sofferenza che sull’innovazione. Pollock è un biopic che non si limita a glorificare il mito e Marcia Gay Harden brilla nel suo ruolo offrendo una controparte perfettamente bilanciata al protagonista. Il film, con una fotografia evocativa e una colonna sonora sobria, restituisce il senso del gesto pittorico e del disordine emotivo che lo sfamavano.

È il 1987 quando Kim Evans sceglie il linguaggio del documentario per JACKSON POLLOCK, in cui offre un profilo dell’artista attraverso testimonianze di chi lo abbia conosciuto e gli abbia lavorato accanto. Il film include interviste a Lee Krasner, Elaine de Kooning ed Elizabeth Pollock. È un doc dalla struttura classica e priva di fronzoli, un viaggio essenziale nel cuore della vita e dell’arte di Pollock. Evans costruisce un ritratto intimo grazie alle testimonianze di profili chiave e a una selezione sapiente di immagini d’archivio, ma è soprattutto grazie all’interpretazione collettiva dei testimoni che il pittore prende vita. Lee Krasner, moglie e critica più severa, offre un ritratto contrastante, che così lo umanizza, evidenziando le sue debolezze accanto alla genialità. Elaine de Kooning e Elizabeth Pollock, attraverso aneddoti personali, dipingono una figura più complessa rispetto alla narrazione tradizionale. La struttura narrativa del film è rigorosa, ma la mancanza di una voce dominante rischia a tratti di disperdere l’attenzione di chi guarda, tuttavia questo approccio permette di mettere luce non solo sull’artista ma anche su quello che è stato il prodotto del suo contesto sociale e culturale.

È un altro documentario, JACKSON POLLOCK: LOVE AND DEATH ON LONG ISLAND, diretto da Teresa Griffiths nel ‘96, a esplorare vita e morte del pittore, ricorrendo anche in questo caso a contributi di persone a lui vicine, tra cui la moglie Lee Krasner e l’amante Ruth Kligman. Griffiths trova un tratto elegante nella forma e incisivo nei contenuti e con questo doc traccia un parallelo tra l’amore, il genio e la tragica fine. La regista combina testimonianze toccanti con una narrazione fluida, soffermandosi sulle relazioni che hanno definito l’esistenza dell’artista: quella con Lee Krasner, musa e critica implacabile, e quella con Ruth Kligman, sua amante e presenza controversa. La regia, che ha potuto godere delle preziose riprese della casa di Pollock a East Hampton, restituisce un senso di intimità che avvicina lo spettatore al dramma interiore del soggetto. Jackson Pollock viene interpretato indirettamente attraverso la geometria articolata delle sue relazioni: non c’è un attore a dargli corpo, ma il suo montaggio evocativo e le interviste intime lo trasformano in una presenza palpabile. Griffiths costruisce Pollock come artista dilaniato tra forze opposte, tema che riecheggia anche nella sua pittura, seppur a tratti il film tenda su una china troppo romantica, rischiando di ridurlo a una figura definita più dalle interazioni personali che dalla sua arte.

È palese sia il documentario il linguaggio prediletto per raccontare il pittore americano, questa è stata anche la scelta di Harry Moses con WHO THE $&% IS JACKSON POLLOCK? (2006), che segue la storia di Teri Horton, camionista in pensione che acquista per 5 dollari un dipinto che potrebbe essere un autentico Pollock, esplorando insidie e sfide dell’autenticazione nell’arte. Lo sguardo di Moses è ironico e provocatorio, guarda e mostra il mondo dell’arte contemporanea attraverso la vicenda di Horton, una persona comune che entra in collisione con l’élite culturale. Questo documentario, apparentemente lontano dall’agiografia, riesce a mettere in discussione la nozione stessa di verità e valore artistico, usando Pollock come punto di riferimento. L’indagine sulla possibile autenticità del dipinto si trasforma in una riflessione più ampia su arte, mercato e pregiudizi. Il doc è brillante e affilato, diverte e stimola. Anche in questo racconto Pollock non è interpretato da un attore, ma la sua presenza aleggia come ombra ambigua e contesa. La camionista diventa un’inattesa anti-eroina, incarnando il pubblico comune. Pollock, in questo caso, è visto come un’icona la cui autenticità si misura in termini di mercato piuttosto che di impatto culturale e Moses sfrutta questa dicotomia per esaminare il pittore come figura di rottura, una provocazione che si estende anche al processo di autenticazione delle sue opere.

Dulcis in fundo, un doc tutto italiano sull’americano: JACKSON SONG: UN RICORDO DI JACKSON POLLOCK di Francesco Dal Bosco, girato a East Hampton, sempre nella casa dell’artista, offrendo ancora uno sguardo intimo sulla vita di Pollock. Dal Bosco ha un tocco di rara delicatezza e realizza un documentario intimo e poetico, anche grazie all’ingresso nella dimora che fu per il pittore rifugio e laboratorio creativo. Il racconto sa evocare, più che narrare, e restituisce il senso della presenza dell’artista nei luoghi che hanno segnato la sua fantasia. Il montaggio è contemplativo e la fotografia ha scelto saggiamente luci naturali, permettendo al film di presentarsi come una meditazione sull’arte e sull’uomo, offrendo un’esperienza sensoriale. L’assenza fisica di Pollock qui diventa punto di forza: è interpretato dal vuoto che ha lasciato e dalla luce che filtra nei suoi spazi d’arte. L’approccio, suggestivo, può però risultare anche elitario e di difficile accesso per uno spettatore non familiare con la figura di Pollock.

Jackson Pollock, celebre per la sua tecnica del Dripping, in cui lasciava sgocciolare e spruzzare la vernice sulla tela, ha rivoluzionato il concetto di pittura, trasformandola in un processo fisico e gestuale. La sua arte è frutto di una personalità segnatada tormenti interiori, lotte contro l’alcolismo e relazioni tumultuose: è un soggetto cinematografico succulento perché incarna l’icona del genio creativo autodistruttivo, al crocevia tra ordine e disordine. La sfida per lui, per la sua arte, è stata quella di superare i propri demoni, la tensione tra innovazione artistica e pressione del successo. Raccontare Pollock attraverso il cinema invita a riflettere sul prezzo del talento e sull’umana fragilità dietro il senso del mito.

È proprio la sua “relazione pericolosa”, o più francamente tossica, con l’alcol ad aver concorso a scrivere aneddoti dall’effetto cinematografico, se non fosse che siano stati momenti di vita reale: uno per tutti riguarda la sua collaborazione con il fotografo Hans Namuth, nel 1950, che desiderava documentare il processo creativo di Pollock e, per farlo, lo filmò mentre dipingeva su una lastra di vetro, riprendendolo dal basso. Pollock, inizialmente riluttante, accettò infine l’idea: dopo una sessione di riprese all’aperto, in una fredda giornata, Pollock – che in quel momento manteneva la sobrietà da circa due anni – si versò un bicchiere di bourbon e questo gesto segnò la fine della sua astinenza, lì per lì innescando una discussione accesa con il fotografo, culminata con il pittore che rovesciò un tavolo apparecchiato davanti agli ospiti presenti. Questo incidente evidenziava la tensione tra l’artista e l’intrusione dei media nel suo processo creativo.

I cinque film qui scelti per raccontare Jackson Pollock illustrano la sua personalità turbolenta ma, altrettanto, evidenziano le sfide che l’essere umano ha affrontato per provare a bilanciare vita personale, crescente fama e aspettative del mondo artistico.

Disegnando un confine circoscritto, sono una trentina le opere più celebri di Pollock, diverse delle quali titolate con riferimento numerico, seppur non cronologico dal punto di vista realizzativo, come Numero 5 (1948) o No. 32 (1950) ma, per una suggestione sintetica e variegata, alcune tra le tante che si possono guardare pensando alla personalità e riconnettendole al racconto per il grande schermo, sono:

The Flame (1934-1938)

Going West (1934-1935)

Male and Female (1942)

Full Fathom Five (1947)

One: Number 31, 1950 (1950)

Scent (1955) e Search (1955)

Gli ultimi titoli affiancati sono considerati parimenti le due opere completate prima della sua scomparsa nel ’56, rappresentative di un periodo in cui stava sperimentando nuovi approcci.

 

 

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26 Gennaio 2025

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