Il “dream big” di James Cameron e la pensioncina romana in cui disegnò Terminator

Il regista canadese – in collegamento streaming dalla Nuova Zelanda, dove sta girando ‘Avatar 3’ - ospite del Museo del Cinema di Torino per una masterclass: dalla mostra ‘The Art of James Cameron’ gli spunti per dialogare sull’immaginario del regista


C’era una volta Avatar e c’è ancora. Correva l’anno 2009 quando James Cameron apriva le porte del mondo di Pandora, universo primordiale dentro cui ci ha fatto immergere e, in fondo, mai riemergere, tornando tra le cromie blu e i misteri di quell’universo ancora nel 2022 (Avatar 2) e, di nuovo, nel presente corrente.

Lo sdoppiamento di Cameron è tra la Nuova Zelanda, terra in cui sta girando il terzo capitolo di Avatar appunto, e Torino: infatti, all’ombra della Mole Antonelliana, stasera – 11 giugno 2025 – ha incontrato pubblico e stampa per una masterclass.

Il capoluogo piemontese, nello spazio del Museo del Cinema, sta ospitando The Art of James Cameron, allestimento dedicato alle sue opere, già meta di migliaia di visitatori, calore per cui l’autore canadese s’è dichiarato particolarmente “emozionato” e, anche per questo, desideroso di dialogare con il direttore Carlo Chatrian, tramite del pubblico di spettatori, per parlare di “creatività e curiosità”.

“Questa conversazione rappresenta un dialogo, non una lezione di cinema”, precisa Chatrian, che la definisce “una chiacchierata sulla mostra, un andirivieni tra i film e i disegni che fanno parte della mostra, sulla sua passione per la science fiction e sulla sua curiosità per le sperimentazioni artistiche: dalla mostra emerge che Cameron sia anche un esploratore… è sceso nella Fossa delle Marianne, così come nel relitto sul Titanic e da lì i disegni utili al film”.

Cameron, in collegamento da Wellington, comincia con un accenno dal principio, racconta infatti di essere “cresciuto in un paese con 12mila abitanti, sono nato nel Canada rurale: la mostra, infatti, mostra anche il giovane James. Nel giro di alcuni anni tante cose poi si sono sovrapposte: a me piacevano anche i comics in bianco e nero e io cercavo immagini che stimolassero la mia immaginazione, certo non c’era l’alluvione di immagini di adesso, e poi sono stato molto affascinato dalla scienza. Quindi, ho avuto diverse fonti di influenza”.

Inoltre, “erano gli Anni ’60, c’erano le dimostrazioni contro la guerra in Vietnam: vedevo una realtà quasi distopica rispetto alla società, eravamo nell’ombra di una potenziale guerra atomica, tutto sembrava rischioso, e poi c’erano quelle immagini di mondi migliori, che potevo leggere nei libri, guardare nelle opere di pittori e illustratori, ecco le mie influenze”.

Pensando alla mostra alla Mole, Cameron pensa a chi abbia “15, 16, 17 anni: spero che guardando la mostra capiscano che già possano far sentire la propria voce, iniziare subito a esprimere la propria visione”.

Se il mondo dell’artista canadese è il cinema e in particolare quello possibile con le più sviluppare tecnologie disponibili, in principio però è stata la matita a fargli creare universi: ammette che “all’inizio era tutto abbozzato, meno raffinato: con la matita puoi aggiustare, cancellare, ma con la penna no… quindi ho cominciato a sviluppare la tecnica, mettendo su carta i miei voli di fantasia, per cui dovevo lavorare in fretta per stargli dietro; solo all’università ho seguito dei corsi ma ho sempre cercato di star dietro alla mia immaginazione che correva… è stato un flusso costante: volevo assorbire dal mondo quello che vedevo. Avevo anche paura nei confronti del mondo, ansia, ma questa è stata una terapia, mi permetteva di sfogarmi, così le storie sono venute in superficie”.

Uno per tutti, tra i mondi creati da Cameron, ecco quello di Avatar, Pandora. Per lui “più costruisci un mondo, più hai responsabilità e devi rimanere fedele ai personaggi, così che il pubblico sia in grado di connettersi a loro: io faccio così anche con gli artisti con cui lavoro, fino a 1000 persone nel complesso; ho un team base di 3-4 persone che seguono il flusso delle mie idee, ci deve essere una specie di intimità mentale e artistica per capire cosa senta io e cosa senta il personaggio. Inoltre, essere scrittore è importante perché le immagini si possono sviluppare funzionali alla storia, è un ponte tra immaginazione e prodotto finale. Con Avatar, siamo su un pianeta strano con esseri estranei, ma che si comportano come esseri umani, per questo comprensibili a un pubblico globale. È molto importante riuscire a capire cosa ci sia dentro una creatura – amore, odio, morte: il potere dell’arte prende una lente specifica dell’essere umano e la riversa all’esterno in modo da comprendere tutti”.

Chatrian continua a dialogare con James Cameron proponendogli la visione di alcuni disegni e illustrazioni presenti in mostra, cominciando dalla storia di Xenogenesis, cortometraggio del ’78. Lui racconta che “all’epoca non avevo mai visto una manta, solo meduse sulla spiaggia: ero già affascinato dall’Oceano, così sono entrato dentro l’Oceano, ho pensato a Cousteau, e ho imparato a conoscere questi mondi, li ho messi insieme, ho iniziato a fare immersioni. Così ho capito di dover sviluppare in scala i mondi che volevo raccontare: sempre nell’ambito della fantascienza, volevo mettere insieme un tour de force creativo; dopo pochi anni, sono stato in grado di dirigere un film di fantascienza, è funzionato l’approccio: poi s’è sviluppata la tecnologia per esprimere questo tipo di idee. Tante cose di quel tempo le ho riportate in vita e inserite in Avatar: è stato funzionale alla Digital Domain, volevo che la compagnia fosse davanti a tutte, ero esternamente ambizioso; pensiamo al ‘77, facevo disegni per Xenogenesis e poi tutto si è modificato per Avatar e, altri 10 anni ci sono voluti per creare la tecnologia, e adesso sono ancora qui che lavoro a Pandora: è un progetto che ha preso tutta la mia vita! È un mondo così ampio che è tutta la mia vita: è un mondo ricco esattamente come quello in cui viviamo; semplicemente, rispecchio in modo divertente il nostro mondo”.

Sempre dalla mostra, ecco lo spunto di 1997: Fuga da New York, occasione per far ricordare al regista canadese la collaborazione con John Carpenter e la factory di Roger Corman. Cameron ricorda: “eravamo 20enni e ambiziosi, con tanta energia, lavoravo per Roger: avevamo un’infrastruttura con motion control, quando – a una festa – venni presentato al production designer di Fuga da New York e lì ci siamo accordati con una stretta di mano; è stato un matrimonio tra due culture di low budget; Carpenter era famoso ma aveva budget limitati e noi eravamo esperti di visual effect e non vedevamo l’ora di lavorare. Carpenter per me era un modello: arrivato dal nulla, era un punto di riferimento, immaginavo di diventare come John Carpenter, era focalizzato, veloce. Dovevamo usare il nostro talento e inserirlo nel riquadro del suo mondo: noi avevamo immaginazione, lui era più quadrato. Una formazione incredibile per me lavorare per Corman e Carpenter”.

E poi è il tempo di Terminator, una storia “tutta italiana” a suo modo: “ci sono tanti dati narrativi, c’è l’influenza di Carpenter, ho immaginato come il protagonista potesse avanzare poco per volta: è uno scheletro ma anche una forma umana. Lui ha cercato per un momento di far parte del mondo umano, però ci deve essere un motivo per cui un robot nemico debba sembrare umano, per infiltrarsi e non essere riconosciuto. Ho ricordato un sogno, uno scheletro cromato che usciva dalle fiamme: ero a Roma quando ho cominciato a disegnarlo, ero in una piccola pensione, senza soldi”.

Le tracce “a matita” continuano con il ritratto della Rose di Titanic e Cameron spiega che “nel film, quando vediamo Di Caprio che disegna la sua mano destra fa questo schizzo: Leonardo non sa disegnare, quindi avevo fatto io i vari disegni; ho fatto uno shooting con Kate e ho usato l’immaginazione per quello che non potevo vedere, non volevo che si vedessero solo i suoi capezzoli, non volevo la gente notasse quello. Leonardo doveva disegnare con la destra ma io uso la sinistra per cui, nel film, c’è un arco di composizione opposto, un contrappunto: ho usato solo movimenti molto limitati, tracciando linee ma non ombre, se no non ci sarebbero state le corrispondenze. Io devo essere distratto per disegnare bene, comunque. Nel disegno di Rose c’è un’illuminazione alla Caravaggio, alla Rembrandt, perché Jack è una specie di osservatore dell’anima delle persone: le mani erano importanti perché rappresentano l’anima e lui, infatti, si focalizza su chi sia lei, non importa che sia nuda, ma la mostra com’è… volevo lei apparisse la persona che è, in modo che ci fosse una connessione emotiva col pubblico”.

Dulcis in fundo, ecco il ritratto di Neytir di Avatar: “Cosa è simile, cosa è diverso?”, si era domandato dapprima Cameron per questo personaggio, poi “abbiamo proposto questa specie aliena: all’inizio mi mostravano immagini di rettili, pesci, ma io volevo qualcosa di diverso ma molto attraente, con qualità da essere ferale, e volevo lei fosse davvero viva, mantenendo le proporzioni perfette, seppur non sia bellissima: fino a che punto potevo aumentare le proporzioni del volto umano affinché fosse diversa ma coinvolgente? Abbiamo mantenuto una parte umana, la bocca per esempio: ho scelto poi come attrice Zoe Saldana, molto felina nei movimenti. Il personaggio doveva essere capito dal pubblico e non doveva essere mascherato, come si faceva prima di Avatar. Volevo arrivare a qualcosa di organico e quel disegno è stato centrale nello sviluppo del personaggio”.

Sempre restando nel mondo di Pandora, Chatrian entra nel dettaglio della regia, parlando di “riprese come fossero una performance di danza” e James Cameron dice che sì, “volevamo si muovessero in un modo non totalmente umano: abbiamo sviluppato un modo di sedersi, di muoversi, come un gatto che si accovaccia, volevamo un linguaggio che fosse un repertorio fisico; insieme, abbiamo sviluppato anche la pronuncia del parlato e Saldana è stata anche alla base dello sviluppo del linguaggio, perché lei parlava spagnolo e poi ha dovuto imparare l’inglese; inoltre, lei aveva la fisicità da ballerina, che era stata, la grazia. Abbiamo fatto molte prove prima della performance capture, per cui dev’essere definito tutto prima: importante è sviluppare una coerenza prima. Adoro la libertà che mi dà tutto questo, il non dover stabilire l’illuminazione per esempio: per Titanic ho dovuto invece ricorrere tanto all’illuminazione, che mi ha tolto tempo, mentre con la performance capture mi posso focalizzare davvero sull’attore, poi mi preoccuperò del resto successivamente”.

Se “la fine” – o meglio, il presente – di James Cameron è la lavorazione in corso di Avatar 3, è stato da bambino, 14enne, guardando “2001: Odissea nello Spazio che mi sono chiesto come fosse stato fatto, era magia pura, volevo capire. C’era un livello di dettaglio incredibile, forse da qui nasce lo spunto per voler fare quello che faccio, il capire come si potesse fare. Ora, ovviamente, vedo il film in maniera completamente differente, lo vedo freddo, manca di passione, ma la visione grande, la bellezza, gli spazi senza tempo di Kubrick, quelli sono per sempre; e poi c’è stato Guerre Stellari, immagini che mi hanno fatto esplodere il cervello: lì ho pensato, ‘posso mettere la mia immaginazione all’opera e creare qualcosa di simile’, e la mia prima reazione sono stati i disegni di Xenogenesis. Dream Big, sognare in grande”, questo il monito di James Cameron.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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11 Giugno 2025

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