Il cinema – Una lunga storia di abbracci

Il Festival di Cannes ha scelto quello di 'Un uomo, una donna' di Claude Lelouch per la sua doppia locandina: noi ripercorriamo altri celebri abbracci del cinema


A Cannes, quest’anno, si entra abbracciati. La doppia locandina del Festival – rara e poetica anomalia – è un fotogramma sospeso, un abbraccio ripreso due volte, o forse uno solo che vive due volte. È Jean-Louis Trintignant e Anouk Aimée in Un uomo, una donna di Claude Lelouch, stretti l’uno all’altra come se il mondo si fosse appena ritirato per lasciare posto solo a loro. Il bianco e nero abbraccia il colore, l’eleganza di una stagione passata si fonde con il desiderio ancora vivo di ritrovarsi, di sfiorarsi, di restare. È la locandina più silenziosamente eversiva che si potesse immaginare per un tempo che ha fatto del distanziamento il suo totem. Invece, Cannes rilancia: si può ancora toccare, ancora amare. Ancora credere che il cinema sia, prima di tutto, una forma di prossimità.

Perché il cinema ha sempre abbracciato. Ha stretto a sé i suoi personaggi, gli spettatori, i sogni e le ferite. È un gesto semplice, archetipico, eppure sempre nuovo: come l’ingresso improvviso di una colonna sonora, come il montaggio che salta un battito del cuore.

L’abbraccio è un’ellissi narrativa e insieme un punto fermo. Raccoglie, consola, promette. E non sempre è d’amore. C’è chi si abbraccia per dire addio, chi per fingere, chi per salvarsi la vita. L’abbraccio è un ponte che il cinema attraversa con disinvoltura, oscillando tra il patetico e il sublime.

Come dimenticare il gesto di Rossellini in Roma città aperta, quando Anna Magnani si lancia verso l’uomo che ama, sotto i colpi dei nazisti, e non riesce a stringere più nulla che l’aria. O quello di Totò e Ninetto Davoli in Uccellacci e uccellini, abbracciati sotto la pioggia, grotteschi e teneri come due bambini persi. O ancora Il ladro di bambini di Gianni Amelio, dove un carabiniere e una bambina, in un abbraccio muto sul traghetto, sigillano la più improbabile delle famiglie.

Nel cinema di Wong Kar-wai, l’abbraccio è una coreografia del rimpianto. In In the Mood for Love, i corpi si sfiorano senza mai toccarsi davvero, eppure l’abbraccio è ovunque: in una sigaretta accesa, nel riso non detto, in un corridoio attraversato al rallentatore. Wong non filma amanti: filma assenze che si stringono.

E poi ci sono gli abbracci che salvano la pelle: l’ultima stretta tra Frodo e Sam su Monte Fato, quando l’amicizia ha ormai superato i limiti della carne. O quello di Ripley e Newt in Aliens, il rifugio provvisorio di una maternità improvvisata nel cuore del terrore. E che dire di Will Hunting e Sean Maguire in Will Hunting – Genio ribelle, quando Robin Williams ripete “non è colpa tua” finché l’abbraccio non si fa valvola di sfogo, espiazione e rinascita?

Il cinema abbraccia anche quando non lo fa davvero. Quando guarda da lontano e lascia che sia lo spettatore a chiudere le braccia attorno a ciò che vede. Pensiamo a Lost in Translation: lo sappiamo cosa si dicono Bill Murray e Scarlett Johansson nell’ultimo abbraccio? No. Ma ci sentiamo dentro anche noi.

Talvolta, l’abbraccio arriva troppo tardi. È il caso di Brokeback Mountain, dove ciò che non si può avere si conserva in una camicia stropicciata, stretta al petto con la furia di chi avrebbe voluto un’altra storia. E ci sono film interi costruiti su un unico, infinito abbraccio, come Le vite degli altri, dove la distanza tra due esseri umani si consuma finché l’abbraccio finale – anche solo metaforico – diventa un balsamo contro l’orrore.

Ma non tutti gli abbracci rassicurano. In Il Padrino – Parte II, quello tra Michael e Fredo è un gesto carico di tensione e tradimento, un sigillo di condanna mascherato da vicinanza. È un abbraccio che non consola, ma inchioda. Come quello tra il Grande Capo e McMurphy in Qualcuno volò sul nido del cuculo, dove pietà e amore fraterno si fondono nel gesto estremo di chi libera distruggendo, con un dolore che si fa tenerezza.

Altre volte, l’abbraccio è uno spazio di purezza, di innocenza non ancora corrotta: come quello tra i due ragazzini di Moonrise Kingdom, stretti nel loro piccolo rifugio fuori dal mondo, promessa candida e sfrontata di un amore adolescenziale assoluto. O si fa carezza quasi immateriale, come in Ferro 3 – La casa vuota, dove il gesto è così lieve da non farsi vedere, eppure così profondo da farsi sentire come un soffio nella pelle, come una presenza che aleggia più che tocca.

In Nuovo Cinema Paradiso, il montaggio finale dei baci censurati è, in fondo, un grande abbraccio al pubblico: lo spettatore avvolto dalla memoria, stretto nel velluto rosso di una sala che non c’è più, ma che torna per pochi istanti a vibrare sullo schermo.

“Ci abbracciamo per non essere spazzati via”, diceva Raymond Carver. E il cinema, questo lo sa. Che sia un padre che stringe suo figlio in mezzo alla guerra (La vita è bella), una madre che non vuole lasciar andare (Tutto su mia madre), due vecchi amanti che si riconoscono con un sorriso stanco (Before Midnight), l’abbraccio resta l’ultima frontiera della tenerezza umana. Un gesto che è racconto, memoria, speranza.

Quest’anno, Cannes ci ricorda che nel tempo dei selfie, dell’egotismo performativo, del corpo vetrinizzato, c’è ancora spazio per il gesto più antico e sovversivo: lasciarsi andare in un abbraccio. Come a dire: non siamo soli, finché possiamo stringerci.

E allora, viva gli abbracci. Quelli goffi, quelli disperati, quelli salvifici. Quelli che il cinema ci regala senza chiedere nulla in cambio. Se non la disponibilità a sentirli anche nostri.

Perché, in fondo, ogni grande film è un abbraccio che ci resta addosso molto dopo i titoli di coda.

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10 Maggio 2025

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