Il cinema e la televisione non dovrebbero cercare il colpevole, ma interrogare lo sguardo. Dove guardavamo, mentre accadeva? E cosa cerchiamo davvero, quando torniamo a raccontare? La verità o solo la forma più sofisticata della nostra inquietudine?
Nella provincia pavese dove la luce del mattino si rifrange sugli specchi d’acqua delle risaie e tutto sembra… immobile come un dipinto lombardo dell’Ottocento, mentre il benessere materiale contemporaneo culla e abbraccia il cuore della società del posto, la vicenda di Chiara Poggi – riemersa nelle cronache recentissime con l’acquisizione di nuovi elementi e lo spalancarsi potenziale di scenari che coinvolgerebbero altre persone rispetto ad Alberto Stasi, il fidanzato di lei, unico condannato per l’omicidio – si comporta come certi fantasmi: torna, attraversa i muri, e chiede conto di ciò che non possiamo più dire. È un caso senza pace, un corpo di fanciulla scivolato giù per una scala, il dubbio che tentenna intorno a una bicicletta e un alibi come un vestito che non veste mai del tutto. Anche la verità, qui, è una presenza assente.
Il cinema e la televisione hanno imparato presto a danzare intorno a queste assenze. E se il Noir classico cercava un colpevole, il racconto dei Cold Case – quelli reali, quelli ancora aperti o aperti di nuovo nel cuore dell’opinione pubblica – abita la zona d’ombra in cui il sospetto non si dissolve, ma diventa narrazione.
Non è la verità che interessa ai racconti ispirati ai Cold Case italiani: è il suo riflesso, la sua impossibilità, il suo peso sul corpo sociale. I film, le miniserie, i docufilm, gli ibridi tra inchiesta e fiction, che negli ultimi anni si sono moltiplicati, non inseguono più il colpo di scena, ma più prettamente il trauma condiviso.
Pensiamo ad Avetrana – Qui non è Hollywood (2024) di Pippo Mezzapesa, una serie che espone, sin dal titolo, il cortocircuito tra provincia e spettacolo, tra lutto e fotogramma. Il taglio è disturbante, grottesco, con l’eco di un teatro di burattini tragico e assurdo. Il merito degli autori è di non abbellire “lo sfregio” indelebile compiuto a danno sempiterno di Sarah Scazzi, infatti la macchina da presa rimane impietosa, a tratti quasi complice nella svelatura del meccanismo mediatico, in un’estetica volutamente pop ma straniante.
Più sobrio e istituzionale, Yara (2021), diretto da Marco Tullio Giordana, si appoggia alla classicità del linguaggio per costruire un racconto incentrato sulla dedizione e la fatica della giustizia. Il regista di I cento passi sceglie qui un passo misurato, quasi documentaristico, per raccontare il lento e ostinato tentativo di far emergere una verità processuale. L’impronta autoriale, quella di Giordana insomma, s’avverte nella volontà di proteggere la vittima, tenendola lontana dallo spettacolo, in un’aura di pudore.
Lo è stato un Cold Case, e ora non lo è più per l’emersione ufficiale dell’evidente: Marco Pontecorvo ha raccontato la storia di Elisa Claps nella miniserie Per Elisa. Il caso Claps, che porta con sé anche una firma registica fortemente simbolica. Pontecorvo, figlio d’arte di Gillo, imprime al racconto uno stile che oscilla tra il giallo e il dramma sacro, cercando anche l’eco spirituale della vicenda, complice la scelta estetica di soffermarsi sulle assenze, sulle crepe del tempo. La forza della serie vive nell’accusa sussurrata ma implacabile alle istituzioni, in particolare a quelle ecclesiastiche, che per decenni hanno protetto l’assassino, Danilo Restivo.
La più recente produzione nostrana in materia “Cold” è dedicata da Pablo Trincia – e dal suo gruppo di lavoro, con SKY – a un caso nostrano che, nonostante tutto, riesce a tenere viva la fiammella della luce che potrebbe permettere l’affermazione della verità anche dopo oltre 35 anni dall’inquietante morte di un calciatore: Il cono d’ombra. La storia di Denis Bergamini (2025).
Merita un capitolo a parte il caso di Emanuela Orlandi, scomparsa a 15 anni, nel 1983, in circostanze – tutt’ora, 42 anni dopo – tutt’altro che cristalline, diventando simbolo nazionale dell’inquietudine storica che si annida nei rapporti tra Vaticano, Stato e Servizi. Nel documentario Vatican Girl: La scomparsa di Emanuela Orlandi (2022), il regista britannico Mark Lewis non abbandona completamente il necessario rigore dell’inchiesta giudiziaria, ma – altrettanto – costruisce un racconto seduttivo, ritmato, dove la verità è continuamente spostata più in là, come un miraggio. Il linguaggio visivo è quello del true crime anglosassone: grande cura del montaggio, uso delle testimonianze come confessioni dirette, e un senso costante di thriller geopolitico, rendendo l’assenza una presenza costante e dolorosa.
Accanto a questo sguardo internazionale si colloca La verità sta in cielo (2016), film diretto da Roberto Faenza. Qui il tono cambia: non più il presente incandescente del sospetto, ma un’indagine retrospettiva, quasi da giornalismo d’altri tempi, con Riccardo Scamarcio nei panni di Enrico “Renatino” De Pedis e Maya Sansa in quelli di una reporter vaticanista. L’approccio di Faenza è più ideologico che emotivo: la regia asciutta procede provando a smascherare le coperture, le omissioni, le complicità tra apparati. La protagonista così resta al margine, una figura mai completamente restituita, ma in questo distacco c’è forse il tentativo di sottrarla allo spettacolo.
Queste dedicate a Emanuela Orlandi sono certamente due visioni molto diverse, che rivelano come il caso, più di ogni altro, evochi la figura del mistero come struttura narrativa, più che come fatto.
Per comprendere meglio i confini di questo genere di rappresentazione, conviene allargare lo sguardo e lanciare almeno un’occhiata Oltreoceano. Il caso internazionale di The Staircase – basato sull’omicidio di Kathleen Peterson e sul processo al marito Michael, prima raccontato nel documentario seriale francese di Jean-Xavier de Lestrade (2004), poi nella fiction HBO (2022) con Colin Firth e Toni Collette – rivela un approccio molto diverso: la stratificazione è palese, quasi una mise en abyme; il documentario, la fiction, il making of, il processo, la verità soggettiva. L’America narra i Cold Case come narra se stessa: come moltiplicazione di punti di vista, come esercizio metanarrativo. La giustizia è un’istituzione, ma anche un genere letterario. Ogni versione del caso è un romanzo incompleto.
In Italia, al contrario, è più ricorrente l’ossessione per l’indizio, il colpevole, la ricostruzione definitiva. Forse perché il racconto di cronaca nera, da noi, si è sempre intrecciato con la necessità di un ordine. Forse perché la giustizia percepita è, spesso, quella simbolica.
E allora, qual è il confine etico? Esiste? Forse coincide con la consapevolezza di raccontare sempre troppo, e sempre troppo poco; di prendere in prestito una vita per raccontare un’emozione collettiva. I Cold Case diventano teatro tragico perché non hanno soluzione, perché ci obbligano a convivere con l’incompiuto.
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