“If not us, who”, il terrorismo nasce in famiglia


BERLINO – Non è La Banda Baader Meinhof, anche se in parte i personaggi sono gli stessi, ma un film decisamente più intimista che sceglie il versante privato sull’onda di un famoso slogan degli anni ’70, “il personale è politico”. E ricostruisce le radici del terrorismo con risvolti quasi edipici. Opera tedesca in concorso, If not us, who ha un titolo che riecheggia il movimento di opposizione alla guerra del Vietnam e John Fitzgerald Kennedy, mentre “Ich bin ein Berliner”, la celebre frase pronunciata da JFK a Berlino Ovest nel ’63, risuona in uno dei numerosi materiali d’archivio usati dal regista Andres Veiel, un bravo documentarista (ha vinto agli European Film Awards col suo Black Box BRD) qui alla sua prima opera di finzione.

 

“Dal ’68 e da Rudi Dutschke, l’esplosione della rivolta giovanile, sono voluto tornare indietro ai primi anni ’60, alla giovinezza di questi ribelli. Il film è anche una grande storia d’amore, ma l’amore di Gudrun Ensslin era qualcosa di politico e credo che il dolore di abbandonare suo figlio, per passare al terrorismo, sia stato per lei così grande che ha accelerato il processo di radicalizzazione, l’ha completamente indurita nella scelta della violenza”. La storia d’amore è quella appunto tra Gudrun Ensslin (Lena Lauzemis), la figlia più dotata di un pastore luterano, l’unica destinata a studiare in una famiglia così numerosa, e di Bernward Vesper (August Diehl), rampollo dello scrittore Will Vesper, un poeta “arruolato” dal nazismo. Così nella prima scena vediamo il piccolo Bernward soffrire perché il padre uccide il suo gatto, colpevole di aver assaltato un nido di usignoli, per poi spiegare al bambino che il felino è un estraneo in quel territorio, è come se fosse un ebreo tra gli animali.

 

Studenti universitari appassionati di letteratura tedesca, i giovani Gudrun e Bernward si incontrano e non riescono più a lasciarsi, nonostante i costanti tradimenti di lui, deciso fautore della coppia aperta, e le crisi di disperazione di lei, che arriva a ferirsi gli organi sessuali con dei pezzi di vetro. Mettono in piedi una piccola casa editrice (prima pubblicazione proprio l’opera del controverso Will Vesper), mentre il pastore Ensslin, di idee antinaziste, osteggia fortemente la relazione. C’è anche una fase borghese, quando la casa editrice va a gonfie vele e la coppia ha un figlio, Felix, presto abbandonato dalla madre che inizia una nuova appassionata relazione con l’iconoclasta e seducente Andreas Baader e s’incammina a rapidi passi sulla via della clandestinità. Dopo un paio di attentati nei grandi magazzini, sarà incarcerata, uscirà di prigione solo per alzare la posta e finirà la sua vita suicida (ma all’epoca si disse che i tre della Raf erano stati “suicidati”) nel carcere speciale di Stammheim. Anche Bernward, rimasto solo, morirà suicida dopo essere stato internato in ospedale psichiatrico in seguito all’uso massiccio di lsd. Lascerà però un libro, The Journey, pubblicato postumo e considerato una sorta di manifesto generazionale.

Racconta il regista a proposito della genesi del progetto: “Pensavo che sull’argomento fosse stato detto tutto, ma dopo aver letto il libro di Gerd Koener ‘Vesper, Ensslin Baader Preistoria del terrorismo tedesco’ ho avuto la sensazione che quegli anni non fossero poi così scandagliati. Quella lettura gettava una nuova luce su tutto: le lettere, i materiali d’archivio, ora potevo vedere un’altra Gudrun e anche Bernward mi appariva diverso, capivo come aveva potuto spendere tante energie per ripubblicare il libro del padre, ad esempio”. Veiel collega questa storia al presente. “Anche oggi ci sono tante domande in attesa di una risposta. Com’è possibile che in Germania si impieghino molti milioni di euro per il salvataggio delle aziende in crisi senza sapere chi pagherà? Perché le perdite ricadono sempre sulla collettività, mentre i guadagni sono sempre privati? Non voglio paragonare la Germania all’Egitto, ma qualcosa di inatteso può accadere anche qui ed è sempre valido il bisogno di fare qualcosa. Bisogna capire quello che è successo prima, per capire quello che accadrà in avvenire”.

 

E tuttavia nel film, a toccare lo spettatore, è proprio la dimensione umana di Gudrun e Bernward, che cercano di amarsi con le loro regole diverse da quelle correnti. Interviene Lena Lauzemis: “Non si può certo dire che la radicalizzazione della lotta politica nasca dalla gelosia, ma c’è sicuramente una grande vulnerabilità di Gudrun, un sentimento di ingiustizia che la spinge all’azione”. E Veiel aggiunge: “Sono due persone partite da un ambiente molto chiuso, che non hanno voluto prendere i propri genitori come modello, ma hanno cercato vie nuove”.

autore
17 Febbraio 2011

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