BERLINO – Il discorso del re è sicuramente il film della selezione di Berlino che produce più notizie, almeno una al giorno: dal possibile sequel The Windsor at War al trionfo ai Bafta agli incassi ormai stellari. Qui al festival è nella vetrina Berlinale Special, quella dei film di grande impatto, ma già un po’ visti in giro per il mondo (tra questi anche Taxi Driver in versione restaurata che sarà presentato stasera al Friedrichstadpalast dallo sceneggiatore Paul Schrader essendo assente Martin Scorsese). E anche il “biopic” di Tom Hooper è uscito un po’ dappertutto, Italia compresa, ma in Germania sta arrivando proprio ora nei cinema. Comunque alla premiere sono venuti sia il regista che gli attori, il magnifico Colin Firth e l’esplosiva Helena Bonham Carter, fasciata in un abito vittoriano e con un’acconciatura da vera regina. Lei alla Berlinale è protagonista anche di Toast di SJ Clarkson, dov’è una signora della lower class ingaggiata nella famiglia di un vedovo e pronta a diventare la padrona d casa seducendo l’uomo a colpi di succulenti lemon cake e tacchini ripieni, mentre il figlio, che rimpiange la mamma morta ad ogni inquadratura, diventa a sua volta un grande chef proprio per sfidare la futura matrigna sullo stesso terreno (il film, che ha il solo merito di ricostruire con immagini coloratissime il boom del cibo in scatola nei primi anni ’60, è basato sul libro del giornalista gourmet Nigel Slater).
Ma l’attrice britannica, compagna di Tim Burton, è comunque bravissima nel ruolo della donna volgare e arrivista, coi capelli cotonati e le calze con la riga, quanto in quello di Elisabetta, solerte consorte del futuro Giorgio VI, pronta a tutto per aiutarlo a superare la sua balbuzie e diventare re, mentre il fratello abdica per sposare la divorziata americana Wallis Simpson. “Elisabetta è una regina diversa da quella di Alice in Wonderland – dice la 44enne attrice ai giornalisti – certo, non ho difficoltà a mostrarmi un po’ autoritaria. Ma ognuno di noi ha dentro di sé tante personalità e anche le sovrane sono tutte diverse. Per esempio la Regina Rossa del film di Tim è una bambina di 3 anni, una vera tiranna”.
Riflettori puntati anche su Colin Firth, che per questo ruolo ha una delle 12 nomination di The King’s Speech. “Gli Oscar – spiega il regista – sarei un bugiardo a dire che non mi interessa e gli attori sono certamente d’accordo con me”. Firth, come al solito, dà prova di eleganza e un tocco di snobismo che non guasta, abbozzando un sorriso sornione. Poi racconta come ha lavorato:”Del mio personaggio sapevo che balbettava e che non aveva voglia di diventare re, ma niente di più. Per me era figura storica vaga. Invece conoscendolo ho maturato un enorme rispetto per lui come essere umano. Aveva una grande dignità, qualità mantenuta anche dalla generazione seguente. Su quel periodo ci sono molti documenti, libri, filmati e registrazioni audio, su quelli ci si può basare per rendere i suoi attegggiamenti”. Gli chiedono se è stato difficile imparare a balbettare. “Ho fatto tutto da solo. C’era un logoterapista sul set, ma solo per insegnarci come smettere di balbettare e quindi non mi ha dato nessun consiglio. So che la balbuzie è una forma di vulnerabilità, una specie lotta con se stessi. Certi momenti della vita del Duca di York, come il discorso allo stadio di Wimbledon, ci spezzano veramente il cuore”. Del resto anche lo sceneggiatore, David Seidler, aveva problemi a parlare da piccolo. “E’ una sceneggiatura molto ricca – dice ancora Colin Firth – la cosa più difficile da rendere era il momento in cui il logopedista Lionel Logue (Geoffrey Rush) mi chiede di parlare dell’infanzia. Lì c’era il fondato rischio di cadere nel sentimentalismo, nel patetico, una cosa che avrebbe completamente distrutto la storia. Lionel cerca di guarirlo facendolo diventare più forte e dunque capace di affrontare anche quei traumi infantili, il rapporto con la sua governante, per esempio. Ma secondo me questo bisognava mostrarlo anche con un po’ di ironia e in questo Geoffrey mi ha aiutato molto”. Aggiunge il regista: “Colin è straordinario ed è adorato da tutte le generazioni di spettatori perché riesce a rendere i suoi personaggi con leggerezza e finezza. La gente, anche in Inghilterra, conosceva bene la storia dell’abdicazione, ma poco quella della logoterapia di Giorgio VI. Noi abbiamo scoperto i quaderni di Lionel, dove annotava i passi avanti della terapia e che nessuno storico finora aveva visto”.
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