Klimt. Oltre ‘Il Bacio’, John Malkovich, Helen Mirren, e la riservatezza

C’è un dipinto che più di tutti lo identifica, quello che evoca il gesto profondo e delicato di uno scambio intimo sulle labbra, ma il pittore austriaco simbolo dell’Art Nouveau, scomparso il 6 febbraio 1918, è spesso stato raccontato dal cinema con meno sfumature rispetto alle sue artistiche, nonché umane


Gustav Klimt (14 luglio 1862 – 6 febbraio 1918) per il cinema è come un arcobaleno: sono differenti e versatili le sfumature degli approcci scelti, dondolando tra agiografia estetizzante e esplorazione critica del suo lascito culturale. Il pittore viennese è spesso celebrato quale icona dell’Art Nouveau e simbolo della Vienna fin de siècle: le rappresentazioni su grande schermo, spesso, hanno teso però a rimanere intrappolate in una visione parziale e stilizzata del personaggio, tralasciando “pennellate” essenziali della complessa personalità e del contesto storico.

Se Klimt di Raúl Ruiz si distingue per un approccio onirico e visionario, in cui John Malkovich restituisce un’interpretazione che sfiora gli aspetti più eccentrici e sensoriali del pittore, un titolo come Woman in Gold, invece, pone l’accento sulla spoliazione delle opere klimtiane e sul dramma della perdita culturale. Tuttavia, Klimt in questa narrazione diventa quasi un’ombra sullo sfondo, una figura passiva. D’altro canto, Il Bacio di Klimt e Klimt & Schiele. Eros e Psiche adottano un taglio più didattico ed esplorano le sue opere con un linguaggio visivo raffinato, ma dall’altra si limitano spesso a una celebrazione estetica, evitando di confrontarsi con le criticità della sua figura, come il suo rapporto complesso con le donne e il ruolo ambiguo della sensualità nella sua produzione artistica.

Il cinema, quindi, oscilla tra la fascinazione per il glamour dorato delle sue opere e la necessità di incastonarlo all’interno di una società in trasformazione, ma raramente riesce a cogliere in modo equilibrato entrambe le dimensioni.

Le opere cinematografiche su Klimt sono visivamente affascinanti, ma non raramente peccano di una certa semplificazione nel delinearne il profilo umano e artistico, lasciando lo spettatore con un’immagine frammentaria e talvolta mitizzata. Insomma, Gustav Klimt nel cinema emerge più come simbolo che come uomo, più come icona dell’estetismo che come innovatore, mentre Klimt è stato uno dei più importanti esponenti dell’Art Nouveau e fondatore della Secessione Viennese, movimento che ridefinì l’Arte a cavallo tra ‘800 e ‘900. Celebre per le sue opere opulente e sensuali, decorate con i personalissimi motivi dorati, per il simbolismo erotico e un raffinato uso delle linee decorative, ha esplorato temi come amore, morte e femminilità con un linguaggio progressista e provocatorio, capace di bellezza e mistero al contempo.

Per KLIMT (2006) di Raúl Ruiz è John Malkovich a prendersi il carico del ruolo di Gustav Klimt: il film si discosta dall’approccio biografico tradizionale e offre un ritratto onirico e stratificato del pittore, scegliendo una narrazione volutamente frammentaria e ricca di suggestioni visive; abbandona qualsiasi pretesa di realismo e si immerge in una rappresentazione surreale e decadente del pittore. L’interpretazione è costruita su un registro sottile, quasi teatrale, che cattura l’essenza di Klimt non tanto come uomo, ma come incarnazione vivente delle sue stesse opere: sensuale, sfuggente, visionario. Malkovich non cerca di rendere Klimt un personaggio accessibile: al contrario, lo avvolge in un velo di mistero, accentuando le sue idiosincrasie, le ossessioni erotiche e la costante ricerca estetica. La scelta stilistica è di certa personalità ma potrebbe risultare alienante per chi cercasse un ritratto più ancorato alla realtà storica. Ruiz, con la sua predilezione per la frammentazione temporale e le atmosfere oniriche, amplifica l’ambiguità del personaggio, trasformando il film in una sorta di tableau vivant di suggestioni klimtiane. L’estetica visiva è sontuosa ma a tratti ermetica, sfida lo spettatore, lo invita a perdersi nei meandri della psiche come della capitale austriaca del tempo.

Ali Ray con IL BACIO DI KLIMT (2023) esplora la storia e il significato del suo più celebre dipinto, Il Bacio appunto. È un raffinato tributo a uno dei dipinti più iconici della Storia dell’Arte, e il doc esplora l’universo estetico e concettuale racchiuso nel dipinto, indagando il suo significato simbolico e il suo impatto culturale. Ray adotta un approccio visivamente elegante, affiancando analisi critiche a riprese suggestive delle opere klimtiane, arricchendo la narrazione con interventi di storici dell’arte e curatori. Il risultato è la sintesi tra divulgazione e introspezione, con uno sguardo profondo sulla poetica dell’artista.

STEALING KLIMT (2007) narra la storia di Maria Altmann e del suo sforzo per recuperare cinque dipinti di Klimt, sottratti alla sua famiglia dai nazisti nel 1938. Questo documentario di Jane Chablani offre un’approfondita indagine sulla vicenda: attraverso testimonianze dirette e ricostruzioni d’epoca, traccia un quadro dettagliato del contesto e delle implicazioni legali. Anche in questo documentario, Klimt emerge principalmente come icona culturale piuttosto che come individuo: con un racconto ricco di dettagli storici e testimonianze dirette, il film costruisce il ritratto di un artista ambivalente, celebrato per la sua straordinaria capacità di catturare l’anima dei suoi soggetti, ma anche oggetto di spoliazione e appropriazione forzata nel contesto della persecuzione nazista. Klimt diventa quasi un simbolo della fragilità del patrimonio artistico di fronte ai conflitti della Storia. La regista sceglie un taglio sobrio ma incisivo e il doc si distingue per la sua capacità di far emergere non solo il dramma personale della protagonista, ma anche le complesse dinamiche che legano appunto Arte, Politica e Diritto.

Sulla scia del film precedente, è Simon Curtis, ispirato al documentario Stealing Klimt appunto, il regista di WOMAN IN GOLD (2015), storia vera di Maria Altmann (interpretata da Helen Mirren) e della sua battaglia legale. Gustav Klimt non appare mai fisicamente sullo schermo, ma la sua figura aleggia costantemente come simbolo della memoria, della bellezza e della perdita. Il film sceglie di raccontare il pittore attraverso la sua opera più famosa, Il Ritratto di Adele Bloch-Bauer I, che diventa il fulcro della narrazione. Helen Mirren incarna la nostalgia e il trauma della perdita, mentre il film sottolinea la dimensione politica ed etica dell’arte klimtiana, depauperata della sua essenza quando sottratta con la forza. Woman in Gold restituisce una visione idealizzata di Klimt, ne celebra il simbolo di raffinatezza e di progresso culturale. Curtis costruisce una narrazione lineare e accessibile, scandita da un’alternanza tra passato e presente che evidenzia il peso della memoria storica e il valore dell’arte come testimonianza identitaria. La regia rimane piuttosto convenzionale, ma le interpretazioni di Mirren e Ryan Reynolds sono valore aggiunto per l’intensità emotiva.

Elena Ringo, a Vienna, nel 2013 gira la sua visione della vita e dell’opera del grande pittore austriaco, intitolando il doc GUSTAV KLIMT: il documentario ha una personalità intimista e contemplativa; Klimt viene presentato con un’aura quasi mitica, sottolineata dall’uso di immagini evocative e narrazioni poetiche. L’approccio adottato è meno critico e più celebrativo, con la tendenza a dipingere l’artista come un genio solitario e sensuale. La mancanza di un interprete umano porta il documentario a concentrarsi quasi esclusivamente sulla sfera visiva, tralasciando gli aspetti più controversi della sua personalità. La regia insiste sulle atmosfere e sui dettagli delle sue opere, offrendo una visione intima ma idealizzata del pittore, Ringo si sofferma sui dettagli delle opere, lasciando che siano le immagini a raccontare sensualità e simbolismo che pervadono l’arte del maestro austriaco, restituendo una visione poetica e immersiva dell’universo klimtiano.

KLIMT & SCHIELE. EROS E PSICHE (2018) di Michele Mally è un doc in cui Klimt è rappresentato attraverso il confronto con Egon Schiele: le loro divergenze e influenze reciproche. Klimt emerge come il maestro raffinato e decorativo, mentre Schiele incarna la cruda espressività dell’inquietudine interiore. La scelta dell’assenza dell’interpretazione attoriale viene colmata da una narrazione dinamica e da una ricca analisi delle opere. Il documentario offre una lettura critica sofisticata della figura di Klimt, mettendo in luce come la sua estetica abbia gettato le basi per l’arte espressionista viennese, ma allo stesso tempo lo ritrae come un uomo radicato nel proprio tempo, distante dalle tensioni esistenziali di Schiele.

Questi film, con approcci palesemente diversi, riescono a delineare Gustav Klimt come una figura sfuggente, un artista che si presta a molteplici letture: ora come simbolo della sensualità e della bellezza, ora come testimone di un’epoca, ora come vittima della spoliazione culturale. Klimt è un soggetto affascinante per il cinema non solo perché la potenza visiva delle sue opere si presti a trasposizioni esteticamente suggestive, ma anche per la sua figura enigmatica e anticonformista. La sua esistenza, vissuta tra rigore della tradizione accademica e ribellione artistica, tra relazioni tumultuose con le sue muse e silenzioso isolamento nel mestiere, offre un terreno fertile per racconti che riescono a spaziare dal biografico all’onirico. Il potere dell’evocazione visiva del cinema, linguaggio capace anche di esplorare il rapporto tra arte e psicologia, trova in Klimt un personaggio sfaccettato e stratificato, che incarnare le tensioni culturali e sociali di un’epoca di grandi cambiamenti.

Gustav Klimt è circondato da numerosi aneddoti che ne riflettono il carattere perfezionista e l’approccio innovativo, ma soprattutto era noto per la sua riservatezza, tanto che una sua celebre frase dice: “Chi volesse sapere di più su di me, cioè sull’artista, l’unico che valga la pena di conoscere, osservi attentamente i miei dipinti per rintracciarvi chi sia e cosa voglia”, affermazione che sottolinea come preferisse esprimere la propria essenza attraverso l’arte piuttosto che con le parole, invitando gli osservatori a cercare la sua identità nelle sue tele.

Seguono qui un ordine cronologico, ecco una manciata delle opere più famose di Klimt, capaci di evidenziare l’evoluzione del suo stile:

Giuditta I (1901)

Ritratto di Adele Bloch-Bauer I (1907)

Il Bacio (1907-1908)

Danae (1907-1908)

L’albero della vita (1909) – parte del Fregio Stoclet

Ritratto di Fritza Riedler (1906)

Le tre età della donna (1905)

La Vergine (1913)

L’ultima sua opera conosciutaLa Sposa (1917-1918), rimasta incompiuta, mostra un’evoluzione stilistica verso forme più espressive e audaci, con un accostamento cromatico vivace e dettagli erotici meno stilizzati rispetto alle creazioni precedenti.

 

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02 Febbraio 2025

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