Guido Votano: “Ritrovare l’animalità umana attraverso gli altri animali”

Il documentario Altri animali, da gennaio 2025 nelle sale, racconta da vicino la storia di Monica Pais, Paolo Briguglio e della loro clinica veterinaria Duemari a Oristano, dove ogni animale riceve le cure necessarie


Quanti bambini dicono che da grande faranno il veterinario? Ma cosa vuol dire davvero avere a che fare con animali domestici e selvatici, da compagnia e da fattoria? Avere la responsabilità di lavorare con gli “affetti delle persone”? Ce lo racconta Guido Votano nel suo documentari Altri animali, da gennaio 2025 nelle sale. I due veterinari protagonisti del film sono Monica Pais e Paolo Briguglio, coppia nella vita e nel lavoro, che gestiscono – aiutati da dieci giovani veterinarie – la clinica veterinaria Duemari di Oristano, dove ogni tipo di animale riceve le cure necessarie, anche quelli senza proprietario. Lo sguardo del regista racconta da vicino una professione che sta attraversando un grande processo di trasformazione e che può dirci qualcosa di inaspettato su noi e sulla società in cui viviamo.

Guido Votano, come ha incontrato Monica e Paolo? Cosa l’ha convinta a raccontare questa storia?

Ho conosciuto i protagonisti del film un po’ per caso, per un’amicizia comune. Mi è capitato di vedere dove e come lavorano. Mi ha sempre incuriosito questo mestiere del veterinario, un po’ a metà tra una tecnologia sempre più avanzata e una certa artigianalità. Mi sembrava interessante vedere come lavorano. È una struttura medio-grande dove lavorano una decina di persone, che curano sia animali dotati di padrone, con portafoglio, e anche animali randagi, che sono sempre di più. Una cosa che fanno un po’ tutti i veterinari, ma che loro fanno con un’attenzione particolare. Nella stessa struttura si vedono le varie anime di questa professione un po’ strana. Due anime che si avvicinano molto: da una parte i proprietari dei cani, dall’altra la volpe o il cinghiale.

Cosa hanno di speciale Monica e Paolo?

Rimontando il girato, mi sono accorto che loro, ogni volta che si presenta un caso, hanno questa attitudine quasi investigativa. Cercano di capire non solo cosa è successo, ma anche come è successo e perché. È la loro routine quotidiana, capire come avvengono le lesioni e le ferite. È un qualcosa in più, una qualità che svela un’attenzione e un’empatia con il mondo animale che è un po’ diversa da quella che io stesso mi aspettavo.

Nel film viene detto che i veterinari lavorano con gli affetti delle persone. Ci sono storie che l’hanno colpita?

Ho scelto in qualche modo di non raccontare le storie dei singoli animali fino in fondo. C’è il loro nome in bella evidenza, perché mi sembrava importante darlo, ma non c’è l’esito delle varie storie che passano sullo schermo. Non era quello il focus del mio lavoro. In passato sono stati fatti dei lavori, sia da Mediaset che dalla Rai, in cliniche veterinarie anche molto grandi: lì il focus era il rapporto tra proprietario e animale, e poi c’era di solito il lieto fine con l’animale guarito che usciva fuori. Qui l’idea era di fare un viaggio immersivo in un lavoro che si immagina, ma che non si conosce davvero.

C’è anche un importante aspetto sociologico che viene affrontato e che riguarda il modo in cui sono cambiati i proprietari di animali domestici nel corso degli ultimi decenni.

Paolo spiega bene nel film come la denatalità influenzi tantissimo il loro lavoro. La quantità di coppie per cui, è brutto dirlo, l’animale surroga la presenza di un figlio in tanti e diversi modi. Questo ha cambiato il lavoro del veterinario in generale: una professione che moltissimi giovani vorrebbero fare con l’occhio alla cosiddetta “pet economy”, al boom che c’è degli animali domestici e al business che c’è attorno a questi. Basti guardare in qualsiasi supermercato come aumentino gli scaffali dedicati ai mangimi per animali. Un mercato in rapidissima espansione. Si fa fatica, invece, a trovare i veterinari che vogliano lavorare negli allevamenti o nei luoghi dove si fa sperimentazione animale, dove i veterinari devono garantire il benessere di quelle bestioline, ma anche nei mattatoi. Nessuno vuole fare più questi lavori, tutti vogliono lavorare con cani e gatti. È un mestiere che si trova a un bivio.

Nel documentario vediamo come i protagonisti si occupino degli animali domestici, come dei randagi, come di quelli da fattoria. Hanno a che fare con ogni strato della società.

E nel film ci sono anche i loro animali personali. Monica ha questa serie di gatti Sphynx, Paolo ha questo ex cane poliziotto. Mi interessava capire il distacco che loro devono avere in qualche forma rispetto all’animale al quale aprono la pancia. Poi come funziona quando parliamo del loro animale?

Sul finale si apre a un messaggio universale che, in qualche modo, dà il titolo al film. Confrontarci con le vite degli “altri animali” ci permette di capire qualcosa delle nostre, forse ci aiuta a rassegnarci all’idea di non lasciare una traccia dopo di noi. Quando ha capito che questa storia potesse nascondere tematiche così alte?

L’ho capito fin da subito. Essere testimone dei dialoghi tra i veterinari e coloro che hanno un animale, o semplicemente coloro che ne portano uno ferito trovato in strada, ti dà la sensazione quasi tattile di come noi attraverso gli animali possiamo ritrovare l’animale che è in noi, una sorta di animalità umana. Lo vedi in tanti momenti, con i pianti, con le risa. Anche se nel frattempo stai raccontando un mestiere e quindi hai questa grande dose di passione, senza la quale questo lavoro si fa male. Insieme a tutto ciò, c’è la freddezza, il distacco che devi avere quando hai a che fare con la vita di un animale, anche se non umano.

Come fanno a rendere sostenibili le loro attività “senza portafoglio”?

Lo rendono sostenibile perché Monica ha un seguito enorme sui social. Ha scritto anche diversi libri sul rapporto uomo-animale. Loro provano, e spesso riescono, a chiudere il cerchio. Curo l’animale randagio che è stato investito e trasformo questa sua sfortuna nel motivo per cui qualcuno lo adotterà. Quelli che stanno messi peggio sono, di solito, quelli che hanno più possibilità di essere adottati. Questo la dice lunga sul rapporto protettivo che abbiamo nei confronti di questi animali, su come il bisogno affettivo di tante persone si riversi non solo sui propri animali, ma anche sugli altri. Monica trasforma l’affetto social in qualcosa di tangibile.

È molto efficace il modo in cui tramite il montaggio e la musica riesce ad alternare il ritmo del racconto, facendoci passare da momenti allegri e spensierati, ad altri tesi e malinconici. Come ha lavorato su questi aspetti?

Per fare questi documentari osservazionali devi stare al posto giusto e al momento giusto. Soprattutto con la troupe giusta, in questo caso ero quasi sempre in one-man-band. L’alternanza di questi momenti è esattamente ciò che succede là dentro. Ho voluto riprodurre al montaggio la situazione caotica che c’è in quel posto lì, dove succedono delle cose che è quasi impossibile programmare. Un susseguirsi di avvenimenti che arrivano in modo imprevisto e caotico.

Nel film ci sono anche delle scene un po’ crude, tra ferite e operazioni chirurgiche. Si è posto il problema di se e come inserirle nel documentario?

Ho fatto delle scelte. Quello che di solito è bene fare in questi casi è: se hai qualcosa di crudo da fare vedere, non la fare vedere subito. Falla vedere dopo che il pubblico si è un po’ affezionato ai personaggi e alla storia. Sono scene che raccontano molto bene questo luogo. Ricordo che dopo l’anteprima a Oristano, una mamma si è rivolta alla figlia veterinaria dicendo: non avevo capito che facevi quel mestiere lì. Ha scoperto qualcosa di diverso. Mi piacerebbe riuscire a far capire meglio come funziona da vicino questo lavoro a tutte quelle persone giovani che lo vorrebbero fare in futuro.

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12 Gennaio 2025

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