Gli specchi di Dalí con Orson Welles, Ben Kingsley e Robert Pattinson

È stato artista, ma anche marchese e alchimista: nato a Figueres l’11 maggio 1904, la sua musa è stata Gala, interpretata da Dita von Teese nel cortometraggio ‘The Death of Salvador Dalí’, mentre ‘The Fame and Shame of Salvador Dalí’ (1997), doc BBC, ne analizza carriera, controversie e impatto sull’Arte moderna


Non una figura da svelare ma un dispositivo visivo da attivare, una superficie riflettente che restituisce l’enigma di un’immagine in continua metamorfosi: così il cinema ha trattato Dalí, artista, ma anche marchese e alchimista, nato a Figueres, Spagna, l’11 maggio 1904.

“Ogni mattina mi sveglio e, guardandomi allo specchio, provo sempre lo stesso ed immenso piacere: quello di essere Salvador Dalí”, parole queste che testimoniano la capacità di trasformare la propria vita in un’opera d’arte, fondendo realtà e finzione, in un continuo gioco di specchi.

Una misura e una finezza inaspettate, che evitano la trappola dell’eccesso che un personaggio tanto sopra le righe inevitabilmente pone, così Ben Kingsley gli dà corpo e anima in DALíLAND (2022), film biografico diretto da Mary Harron. Sono gli Anni ’70, tra New York e la Spagna, e sono raccontati gli ultimi anni di vita dell’artista attraverso gli occhi di James, giovane assistente di una galleria. Questo Dalí è dunque anziano, fragile, ma ancora lucidamente stratega della propria messa in scena pubblica. Kingsley esplora con grazia la tensione tra l’icona e l’uomo che la sostiene, scavando nelle crepe della maschera per far emergere l’inquietudine della decadenza, della perdita di controllo creativo e della dipendenza affettiva da Gala. L’attore inglese offre una messa in scena in cui l’accento, i gesti rallentati, gli sguardi in bilico tra complicità e disperazione restituiscono un Dalí profondamente umano, in una narrazione che privilegia la dimensione intima più che quella visionaria. La regia sobria lascia spazio all’interiorità del personaggio, rinunciando a estetismi forzati per permettere che la presenza scenica di Kingsley si imponga quasi da sola, come un quadro in rovina che ancora incanta: Mary Harron affronta la figura di Salvador Dalí con uno sguardo più emotivo che iconografico, delegando al giovane protagonista lo sguardo del pubblico, come in una sorta di Bildungsroman incastonato nell’ultima stagione del genio catalano. Ben Kingsley sfuma ogni tentazione caricaturale, consegnandoci un uomo e un artista malinconico e crepuscolare, ancora esibizionista ma sempre più ossessionato dalla propria decadenza. Dalíland evita sì l’agiografia ma resta forse troppo composto, come se il vero surrealismo di Dalí si sottraesse, in ultima istanza, alla logica del racconto biografico lineare.

Mentre Quentin Dupieux destruttura non solo la narrazione ma anche l’unità del personaggio, affidando Salvador Dalí a cinque attori distinti, ciascuno dei quali interpreta una diversa faccia – o deformazione – del mito. DAAAAAALí! (2023) – con Gilles Lellouche, Edouard Baer, Jonathan Cohen, Didier Flamand, Pio Marmaï – è un’operazione tanto teorica quanto comica: Dalí è simultaneamente l’arrogante, il fragile, l’enigmatico, il burlesco, l’irraggiungibile. In particolare, Lellouche restituisce un Dalí affettato, quasi meccanico nella sua gestualità rituale, mentre Flamand, con il volto segnato dall’età, dona un’aura quasi tragica al Dalí più anziano, perduto nei propri stessi labirinti. Il gioco attoriale diventa quindi dichiaratamente performativo: ogni Dalí è una caricatura che si fa specchio deformante del precedente, generando un effetto straniante che interroga la natura stessa dell’identità artistica. L’operazione si rivela coerente con l’estetica postmoderna di Dupieux, dove la molteplicità equivale alla verità. Più che interpretato, Dalí viene evocato, evocato come figura impossibile da contenere in un solo corpo. Commedia surreale, descritta come un “falso biopic” su Dalí, il film di Dupieux è un’opera volutamente inafferrabile, una satira del biopic e, allo stesso tempo, un tributo alla frammentazione del sé daliniano. Salvador Dalí si moltiplica letteralmente in cinque attori, in un gioco metacinematografico che diluisce l’identità per esaltarne il mito. La struttura episodica e il tono ironico ricordano più un sogno che una narrazione: Daaaaaalí! è un’anti-biografia che non racconta chi era Dalí, ma piuttosto come funzioni il suo immaginario nell’era dell’iconoclastia. Una riuscita provocazione con la colonna sonora composta da Thomas Bangalter, ex Daft Punk.

In principio, però, fu Orson Welles a “essere” Dalí, nel documentario da lui narrato: SOFT SELF-POTRAIT OF SALVADOR DALí (1970) esplora la personalità eccentrica dell’artista attraverso interviste e riprese di lui all’opera. Considerato uno dei ritratti più intimi del soggetto, questo film di Jean-Christophe Averty restituisce raro equilibrio tra testimonianza e mise en scène. La voce di Welles è tra i ritratti più incisivi del maestro surrealista e Averty non tenta di smascherare Dalí, bensì di seguirlo nel suo stesso linguaggio, giocando con il montaggio, il colore e l’ironia; ne emerge un autoritratto che è al contempo confessione e finzione, esattamente come l’identità dell’artista: costruita, performativa, eppure profondamente autentica. Un esempio di documentario che riesce ad aderire pienamente al suo soggetto. Non c’è un attore che interpreti Dalí: è Dalí stesso a dirigere la propria immagine, in una delle più affascinanti auto-rappresentazioni del Novecento. Averty, con la voce complice e baritonale di Orson Welles, accompagna il pittore in una serie di tableaux surreali dove Dalí si presta a performance, provocazioni, riflessioni sul tempo e sulla morte. Il risultato è un’autobiografia performativa in presa diretta: Dalí domina la scena come un attore consumato, consapevole del potere dell’immagine e della parola. I suoi gesti sono studiati, le pause retoriche calcolate, ma dietro l’ironia e il paradosso s’intravede una sottile inquietudine: quella di chi ha vissuto tutta la vita come opera d’arte e ora teme il silenzio che segue la fine dello spettacolo. Non si può parlare di interpretazione, perché Dalí è il suo stesso personaggio, ma la sua presenza scenica ha la forza magnetica di un protagonista shakespeariano.

E poi c’è un film drammatico che esplora la relazione tra un giovane Salvador Dalí (Robert Pattinson), Federico García Lorca e Luis Buñuel, negli Anni ’20: LITTLE ASHES (2008) si concentra sulle tensioni emotive e artistiche del trio. Paul Morrison, il regista, sceglie la strada del Mélo per indagare gli anni della formazione di Dalí, in un triangolo carico di tensione erotico-intellettuale, in cui Pattinson interpreta un giovane Dalí ancora scisso tra desiderio e ambizione, tra il bisogno di appartenere e quello di sovvertire. Non privo di ingenuità stilistiche, Little Ashes possiede il coraggio di affrontare i tabù dell’identità e del sentimento in un contesto conservatore, rivelando un Dalí più vulnerabile che visionario. Robert Pattinson, in quel tempo reduce dall’esplosione della saga Twilight, si misura con l’intensità di un ruolo complesso: il suo Dalí è nevrotico, introverso, seducente e respingente allo stesso tempo; l’attore lavora sull’instabilità: il corpo del pittore non è ancora quello della leggenda, ma è già quello dell’eccesso, della teatralità che nasce dal disagio. I tic, l’imbarazzo nella gestualità, il modo in cui scivola da uno stato d’animo all’altro, contribuiscono a delineare un Dalí in formazione, diviso tra un amore quasi tragico per Lorca e l’impulso autodistruttivo del genio. La sua interpretazione, benché a tratti acerba, è coraggiosa: rifiuta la simpatia facile e abbraccia la dissonanza. In una delle sue migliori scene, l’artista si espone nudo davanti allo specchio, non solo letteralmente ma anche simbolicamente: è un momento di nascita del mito, costruito però sull’inadeguatezza e la solitudine, e Morrison accompagna questa metamorfosi con una regia sensibile ma mai indulgente.

Ancora, Dita von Teese è Gala per Delaney Bishop, dietro la macchina da presa del cortometraggio THE DEATH OF SALVADOR DALí (2005). Questo corto sperimentale si presenta come una meditazione visiva sulla dissoluzione dell’io artistico e Bishop lavora per stratificazioni simboliche, intrecciando teatralità decadente e immaginario erotico. Von Teese incarna la figura della musa come angelo della morte, custode e carnefice: la visione non mira alla verosimiglianza, ma alla creazione di una piccola liturgia onirica, una danza barocca ai confini del kitsch e del sublime. È Salvador Benavides a interpretare Dalí con una fisicità quasi danzata, che trasforma ogni gesto in un’emanazione surreale. Il film è più installazione che narrazione, e il protagonista si muove in uno spazio astratto dove la morte è una mise en scène, orchestrata e contemplata da Gala. L’attore adotta un registro ieratico: il suo Dalí è una statua vivente, un feticcio artistico che si offre allo spettatore come reliquia del secolo breve. Non c’è evoluzione nel personaggio, perché l’opera non lo richiede: c’è piuttosto una cristallizzazione del mito nel momento della sua dissoluzione. Benavides lavora per stilizzazione: ogni parola, ogni sguardo è calcolato per aderire al tono rituale dell’opera. L’interpretazione, volutamente priva di psicologismo, diventa puro gesto estetico, come un autoritratto vivente che si consuma nell’atto di guardarsi morire.

Infine, ecco THE FAME AND SHAME OF SALVADOR DALí (1997), doc in due parti prodotto dalla BBC, che analizza la carriera di Dalí, le sue controversie e il suo impatto sull’arte moderna. Diviso in due atti come un grande dramma, questo documentario si confronta apertamente con le contraddizioni del personaggio Dalí: l’eccelso pittore e il narcisista pubblicitario, il provocatore e il reazionario. Con rigore giornalistico e accesso a materiali d’archivio di straordinaria ricchezza, il racconto esplora l’ambivalenza tra gloria e ridicolo che ha accompagnato Dalí fino agli ultimi giorni. Una riflessione lucida sul prezzo della celebrità e sul confine — sempre più sottile — tra arte e spettacolo. Dalí è ricostruito attraverso repertorio, interviste, estratti televisivi e testimonianze di critici, amici e detrattori, nessun attore lo interpreta, ma la pluralità di fonti restituisce un’immagine caleidoscopica. Le sequenze filmate — spesso volutamente grottesche o contraddittorie — mostrano un Dalí che recita continuamente se stesso, oscillando tra genio e farsa. La scelta registica è di non correggere o spiegare, ma di lasciar parlare i frammenti: è lo spettatore a dover comporre il mosaico. In questo senso, il vero “attore” è Dalí stesso, ripreso in loop in quel teatro mediatico che lui ha saputo dominare con lucidità e follia. Il documentario ci ricorda che ogni immagine pubblica è anche un atto di recitazione: Dalí, in fondo, è stato forse il primo artista a capire che il Novecento avrebbe trasformato l’identità in spettacolo.

Nel corso del tempo, il Cinema ha affrontato la figura di Salvador Dalí non tanto cercando di restituirne un ritratto unitario, quanto esplorandone le molteplici maschere: l’artista, il mito, il provocatore, il personaggio mediatico, l’uomo. A differenza di altri biopic dedicati a grandi pittori, spesso incentrati sulla sofferenza creativa o sull’incomprensione sociale, i film su Dalí sembrano accettare — e anzi abbracciare — la frammentazione, l’eccesso, la teatralità insita nella sua persona pubblica.

Laddove Dalíland offre un Dalí crepuscolare e intimo, filtrato dalla malinconia dell’età e da una performance raffinata di Ben Kingsley, Daaaaaalí! rompe ogni illusione biografica moltiplicando l’identità del protagonista in cinque volti diversi, come se solo la disgregazione potesse restituire l’essenza di un artista che ha fatto del paradosso la sua verità. Little Ashes indaga invece la genesi emotiva e sessuale del mito, svelando un Dalí giovane, inquieto e lacerato, mentre cortometraggi come The Death of Salvador Dalí ne fissano l’immagine in icona estetizzante, più oggetto di contemplazione che soggetto narrativo. Nei documentari, infine, Dalí è quasi sempre autore della propria rappresentazione: si pensi al Soft Self-Portrait del 1970, dove il pittore dirige il proprio spettacolo davanti alla macchina da presa, o ai montaggi d’archivio della BBC, che ne celebrano l’ambivalenza tra genio e caricatura.

Nella galleria delle opere create da Salvador Dalí, ecco Autoritratto con “L’Inferno” di Dante (1921), Cesto di pane (1926), Il grande masturbatore (Le Grand Masturbateur, 1929), La persistenza della memoria (La persistencia de la memoria, 1931), La nascita dei desideri liquidi (The Birth of Liquid Desires, 1932), Il sogno causato dal volo di un’ape intorno a una melagrana un attimo prima del risveglio (1944), Leda atomica (1949) e La coda di rondine (Swallow’s Tail, 1983).

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11 Maggio 2025

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