“Com’è la vita a 80 anni? La mia è bella, perché ho sempre coltivato molto i rapporti umani, quindi sono una persona piena di affetti, non mi sono mai tirato indietro o chiuso in me stesso”.
Alla vigilia del suo ottantesimo compleanno Gianni Amelio, uno dei grandi Maestri che ha fatto e fa la storia del cinema italiano (nella foto in alto di Claudio Iannone) si racconta a CinecittàNews: il più cinefilo tra i registi divora film già da bambino, in Calabria, dove nasce il 20 gennaio del ’45 in un paesino in provincia di Catanzaro. Aiuto ventenne accanto a De Seta, Puccini, Cavani e altri big, scrive e gira la sua opera prima a 25 anni (La fine del gioco, 1970), coinvolgendo nientemeno che Ugo Gregoretti tra i protagonisti. Poi è la sua filmografia a dire il resto, tra titoli memorabili premiati ovunque. Oggi ci parla a tutto campo della sua vita sul set, ma anche del suo essere un nonno felice, con quella tenerezza a cui ha perfino dedicato il titolo di un suo film.
“I rapporti più forti ora sono con le mie tre nipoti, le figlie di mio figlio”, continua Amelio: “c’è un affetto profondo tra noi, io le ho cresciute così come i nonni crescevano me quando ero bambino… quindi qualche impronta mia le ragazze ce l’hanno, almeno la testa sulle spalle e i piedi per terra”.
Gianni Amelio sul set di ‘Campo di Battaglia’ (2024)
Anche se non ama definire il suo cinema ‘impegnato’, lei è stato uno dei pochi registi italiani a denunciare nei suoi film le ingiustizie e le disuguaglianze del nostro Paese, passando dal mondo della scuola a quello del lavoro e dell’omosessualità. Fino alla denuncia dell’assurdità della guerra, di cui la sua ultima opera, Campo di battaglia, è di fatto un film – manifesto, pur senza stordire lo spettatore con il tuono dei cannoni o il copioso scorrimento del sangue.
“Vorrei che fossero ricordati i compleanni dei miei film, non i miei”, prosegue sorridendo il regista. “Campo di battaglia lo trovo un film necessario, sentito, non solo da me. Un film di cui si sentiva il bisogno, una risposta a tutta la cronaca che ci invade da anni su conflitti lontani che però sono anche nostri, di cui purtroppo siamo parte. Non mi interessa definirlo bello, brutto, o così così, è un film che doveva essere fatto. E io parto sempre da questa considerazione: che cos’è che mi può spingere davvero a fare qualcosa che non sia ‘un pettegolezzo’, ma qualcosa che risponde a delle domande che sono di tutti. Per non andare troppo lontano, nel 1982 ho fatto Colpire al cuore, il primo film che ha parlato di terrorismo non come riferimento alla cronaca o fenomeno, ma come problema che riguardava tutti. Tant’è vero che è ambientato in una famiglia modello, che in qualche modo fotografava l’aria del tempo: era letteralmente impregnato dell’aria della fine degli anni ’70 e degli anni ’80. Oppure, ad esempio, non riesco a dimenticare la mia esperienza in Albania nel ‘94, quando ho girato Lamerica: sono venuto a contatto con un mondo a noi sconosciuto, pur se distante sole 70 miglia di mare… e così come si fraintendeva l’Italia da parte degli albanesi, noi probabilmente non sapevamo nemmeno se l’Albania esistesse.
Ma i suoi film, dicevamo, hanno toccato da vicino anche altri temi, come il lavoro.
“Si, esattamente: ad esempio con L’intrepido (2013), un film al quale io tengo molto; o con il film sulla mancanza di lavoro che ho fatto in Cina, La stella che non c’è (2006), nel momento in cui i cinesi compravano l’Europa, raccontando questo manutentore che ha il sospetto che ci sia un problema nell’altoforno che i cinesi hanno comprato e va a sue spese in Cina per ripararlo: una metafora molto pertinente sul bisogno che noi abbiamo di lavorare, ma non solo per guadagnare i soldi per la spesa, ma proprio per vivere nell’anima, nello spirito… Oppure, lavoro a parte, c’è anche un film che è stato molto discusso, Hammamet: la storia della caduta di un potente, della malattia che porta alla morte e fa vedere la vita in un’altra prospettiva. Non c’è solo la figura del politico in quel personaggio, ma anche il discorso sull’impossibilità di avere il conforto degli altri nel momento in cui un re muore, qualcosa che ricorda un po’ Re Lear (…)
Gianni Amelio e Antonio Albanese sul set de ‘L’intrepido’ (2013) – foto Claudio Iannone
Tuttavia, anche quando ho affrontato argomenti importanti ho sempre cercato di non fare ‘la predica’, quello che oggi si dice ‘il santino’: io con il cinema ho sempre voluto suscitare emozioni. Ho l’immagine di mia nonna, che mi portava per mano, bambino, alla sala Politeama di Catanzaro: lei misurava la bellezza di un film a seconda di quanto aveva pianto, la lacrima era il metro di giudizio di un’opera, anche di un libro o una canzone. La commozione, l’emozione che arriva diritta, non mediata, è quello che io cerco sempre. Seguo i film per almeno tre o quattro settimane dopo che sono usciti, in Italia e se posso all’estero, e mi ricordo quando in alcuni Paesi del mondo vedevo le lunghe file davanti alle sale cinematografiche, dall’Australia all’Argentina, quando è uscito Il ladro di bambini (1992), o addirittura Colpire al cuore a New York, nell’autunno dell’’82: davvero non potevo crederci, ero felice. Avevo in qualche modo realizzato un sogno, quello di toccare il cuore di qualcuno, lontanissimo da me: il cuore di tante persone sconosciute”.
Senza andare troppo indietro, un’altra sua opera importante è Il signore delle formiche, del 2022: quel processo per plagio a fine anni ’60 mostrò tutta l’arretratezza del nostro Paese. La reazione di intellettuali e opinione pubblica portò sì a un primo passo avanti, ma poi il suo film ha raggiunto un pubblico molto più vasto.
“Io c’ero. Purtroppo ho assistito solo a un’udienza di quel processo, non avevo l’umore per assistervi oltre. Le parole del pubblico ministero erano di una violenza insostenibile: io mi mettevo nei panni di Aldo (Braibanti, ndr), davvero credo che lui sia stato eroico a subire quelle parole, più di qualunque altra cosa. Più della reclusione in una cella da solo, il problema era quello di sentire in pubblico, in tribunale, in un’aula di ‘giustizia’, parole di una ingiustizia totale: gravi, offensive… insulti. Lui allora si è rifugiato in una specie di sordità: è come se fisicamente gli fosse impedito di ascoltarle. Forse si è salvato anche per questo, perché ci può essere davvero qualcosa di molto più violento di una ferita. Io in genere invento molto, perché credo che sia compito del regista saper dare plausibilità alle cose che magari non ha conosciuto direttamente: ma quella volta io c’ero, e mi ha toccato direttamente, personalmente. Dopo tanti anni, l’idea è venuta a Marco Bellocchio, che mi ha chiamato per fare un documentario sul caso: io ho rifiutato, perché sapevo che non c’erano abbastanza materiali, poi… perché io amo molto il cinema del reale, ma penso che ci siano altri che lo fanno meglio. Quindi ho rilanciato e gli ho detto ‘perché non facciamo un film di finzione su di lui, raccontando la sua storia?’, e Marco è stato subito d’accordo. Mentre io uscivo dal suo ufficio è nato anche il titolo: lui mi ha chiesto come dovevamo chiamarlo, cosa dovevamo scrivere sul contratto, e io gli ho risposto ‘quello che scriveremo sul ciak: Il signore delle formiche!”
Leonardo Maltese in una scena de ‘Il signore delle formiche’ (2022)
È lo stesso film in cui lei ha scoperto un giovanissimo attore di grande talento, Leonardo Maltese, nel suo esordio con un’interpretazione indimenticabile, meravigliosa: ‘lanciato’ su quel set, sarà poi scelto per diversi altri ruoli, tutti importanti. Come lo avete trovato (e provinato) per una tale performance?
“Esiste un sito internet ad hoc, dove prima ancora di avere un’agenzia i giovani attori mettono le loro foto: perché è difficile, da sconosciuti, trovare un agente che si dia da fare per farti lavorare… E io in qualche modo cerco sempre il ‘non visto’, il ‘non consumato’, la Persona dietro la personalità: quella che magari non ha ancora mai avuto la possibilità di raccontarsi. Quindi, dovendo cercare un ragazzo che avesse vent’anni, dissi ‘Voglio un ragazzo che non abbia fatto niente, uno che non sia già un attore’, e cercando ho visto questa figura un po’ fuori dal tempo, un’espressione che non è di oggi, tant’è vero che nel prosieguo della carriera di Leonardo (Maltese, ndr) gli hanno sempre affidato ruoli storici: dal Leopardi televisivo al film di Andò ambientato all’epoca di Garibaldi. È curioso come io abbia intuito – ma ci voleva poco – che lui aveva un’aria d’altri tempi. Poi per quanto riguarda il modo di dirigerlo, la cosa è molto semplice: l’importante è la scelta di un attore per una certa parte, poi una volta scelto bene, l’attore va. Io non faccio provini, se a volte accade è solo per capire come io posso dirigere un tale attore, in realtà è un provino che faccio a me”.
Quindi è una questione di approccio reciproco, tra regista ed interprete
Certo, ci vuole un approccio diverso per ognuno: anche gli attori molto esperti arrivano sempre con una loro fragilità di fronte a un ruolo nuovo. A quel punto bisogna dargli fiducia e anche molta libertà di espressione, cosa che io faccio, senza calcare la mano, senza obbligare l’attore in uno schema mentale mio: io lascio molta libertà, e intervengo solo quando sento una stonatura. Non era la prima volta che lavoravo con attori debuttanti: a parte la televisione, i tre film che ho fatto con Lo Verso, o con i bambini de Il ladro di bambini, o l’attore anziano co-protagonista de Lamerica, che guarda il caso aveva la mia età di adesso… o il bambino che ha fatto Le chiavi di casa: in qualche modo ho sempre un interesse particolare a che ci sia anche una personalità ‘sorprendente’ sullo schermo: quando sono in grado di mostrare in un mio film un attore per la prima volta ho un orgoglio particolare, e anche un modo di lavorare più stimolante. Spesso si fanno film con gli autori che funzionano al botteghino, o si deve accettare un attore perché imposto dalle circostanze o dalla produzione… Io non l’ho mai fatto. Ma non perché io mi senta superiore a chi invece accetta quella regola, ma perché ho sempre naturalmente trovato storie che avevano come sbocco l’attore nuovo. Poi spesso ho lavorato con bambini e adolescenti, e in quel caso non si deve assolutamente andare a cercare quelli che abbiano già lavorato, magari in spot pubblicitari o altre cose: il bambino – o l’adolescente – deve essere di una credibilità assoluta, altrimenti sa di falso. Leonardo Maltese posso definirlo quasi mio figlio, mio nipote… (sorride), dato che la più grande delle mie nipoti ha 21 anni”.
I suoi primi ricordi a Cinecittà
La prima volta fu nel 1966, di anni ne avevo ventuno, all’epoca: entrai a Cinecittà per fare l’aiuto, ma da aiuto feci un solo giorno, e da regista una settimana. Si trattava di un filmetto piccolo, un western all’italiana intitolato Dove si spara di più, con tutti gli esterni già girati in Spagna. Restavano da fare qualche interno e alcune riprese del villaggio western, il cosiddetto ‘pueblo’ che al tempo era presente in ogni studio cinematografico che si potesse permettere gli esterni: ovvero solo la Elios e Cinecittà. Ho girato quella mia prima settimana da regista della seconda unità perché il regista, Gianni Puccini – in seguito mio grande amico e persona meravigliosa – doveva andar via assolutamente per girare un altro film, e io sono rimasto al posto suo. Ma il fatto che più mi è rimasto in mente di quei giorni è una cosa che oggi fa molto ridere, me la ricordo come fosse ieri. In genere il regista della seconda unità fa le cose che non hanno bisogno degli attori: gira i dettagli, i totali con i cavalli che corrono… Io invece in quel caso dovevo girare con gli attori, peccato che non li avevo: erano scappati tutti, perché non erano pagati! Dovevo girare col buono e col cattivo, ma non avevo né l’uno né l’altro, ero continuamente in cerca di controfigure… E pensare che quel piccolo film ebbe un grande successo di pubblico all’epoca, e oggi è considerato un cult assoluto! (ride) In seguito a Cinecittà ho lavorato anche con altri registi, sempre da aiuto: un altro film che ricordo di aver fatto è sicuramente Se sei vivo spara, di Giulio Questi. E gli interni di un film di Liliana Cavani. Poi un altro western, di cui conservo un ricordo che la dice lunga: uno dei personaggi era una persona di colore, e all’epoca non ce n’erano molte, né a Roma né in Italia. Questa signora era rimasta in Spagna, perché appunto non era pagata, quindi ho dovuto trovare una sua controfigura: così andammo a prendere una studentessa al centro sperimentale e la tingemmo di nero. Tanto per dire come il cinema sia davvero un circo, come diceva Fellini, dove veramente tutto si rappresenta e si presenta, destando meraviglia. In più noi in Italia abbiamo sempre l’estro di risolvere le situazioni, ad ogni costo.
Una scena del documentario ‘Registro di classe – Libro secondo’ (2015)
Gianni Amelio sul set del documentario ‘Felice chi è diverso’ (2014)
Molto più avanti negli anni, lei girerà gli indimenticabili documentari coprodotti dal Luce. Nel 2015 i due Registro di classe (1900-1960 e 1968-2000), che firmerà con Cecilia Pagliarani, e un anno prima Felice chi è diverso. Può raccontarmi come è nata quell’idea?
L’idea è nata in maniera molto semplice: ero a Venezia in concorso con un film, e andai a cena in un gruppo infinito di persone, tra le quali c’era Roberto Cicutto, allora AD di Luce Cinecittà. Gli dissi che non mi faceva lavorare mai, e a quel punto lui mi chiese di fargli una proposta. Gli proposi di fare un documentario su quello che è stata la storia degli omosessuali dall’inizio del ’900 in poi, attraverso il fascismo e il bigottismo degli anni ’50. Lui non ha esitato: mi ha detto ‘appena torniamo a Roma partiamo col lavoro, firmiamo il contratto e tutto’. Difficile invece è stato il rapporto con tutti quelli che poi ho intervistato da Torino alla Sicilia, perché parlavo con persone quasi tutte ultranovantenni, che avevano subìto davvero tanti calvari, soprattutto quelli del sud, che erano stati confinati nelle isole, in una specie di quarantena che serviva a toglierli dalla circolazione: conservavano ancora tanta rabbia mista a dolore nel rievocare quelle esperienze. Il titolo, Felice chi è diverso, l’ho trovato nei versi di Sandro Penna, magnifici, e ho deciso di farlo leggere a Paolo Poli proprio perché aveva la capacità di rendere anche il dramma leggero: aveva una grandissima cultura, un talento di attore che lo portava ad essere davvero al di sopra di tutto. La parte della sua testimonianza, infatti, è senza dubbio la più bella del documentario, quella che mi emoziona di più: c’è il soffio di una libertà che solo il talento ti può permettere. Il talento ti libera da tutto, anche da una catena, da mille catene, è qualcosa di salvifico.
Nino Jouglet in una scena de ‘Il primo uomo’ (2010)
Il rapporto del suo cinema con la letteratura è una costante: da Huxley a Sciascia fino a Rea e Camus, per non parlare di quello con la filosofia. Parlo di Tommaso Campanella, e di quando a 28 anni lei firmò La città del Sole.
“Almeno la metà dei miei film sono stati ispirati da grandi opere, anche quelli che ho fatto per la televisione, come Il piccolo Archimede, adattato da Aldous Huxley, o addirittura La città del Sole: come si fa ad affrontare nel proprio primo lungometraggio qualcosa che si ispira a un filosofo come Campanella? Ci vuole un’improntitudine che c’è quasi da vergognarsi… Ma la cosa che caratterizza tutto quello che io ho preso dalla letteratura è il fatto di averla molto ‘personalizzata’, di non essermi mai legato alla lettera o alle pagine di un romanzo o un racconto, piuttosto di averle rese personali. Nei film spesso ci si accorge se sono tratti da un romanzo, perché in qualche modo si ha paura di ‘tradirlo’: invece io penso che il tradimento vero è quando tu un testo non lo rendi personale. Perché rendere personale il testo di un altro significa inevitabilmente farlo tuo, quindi “tradirlo”. Faccio un esempio che li comprende tutti: Il primo uomo (2011), che ho tratto dall’omonima autobiografia di Albert Camus, in cui ho avuto la fortuna di avere a che fare con sua figlia Catherine, la maggiore conoscitrice dell’opera del padre, che spende la sua vita ad occuparsene in tutto il mondo. Per la parte che raccontava l’infanzia di Camus, le ho chiesto se potevo raccontare qualcosa della mia infanzia. Lei non solo mi ha detto di sì, ma ha aggiunto ‘devi farlo, perché vuol dire che tu ti immedesimi nella persona, la rendi forte, con i mezzi che hai di rappresentare ma anche rivivere determinati stati d’animo’. Insomma, mi ha dato la libertà di fare una cosa che non avrei mai sperato di poter fare”.
Un’altra sua opera molto amata è Bertolucci secondo il cinema, il backstage di Novecento
“In verità in quel periodo avevo uno strano sentimento: ogni volta che riprendevo il set di Novecento provavo un’invidia molto forte per Bernardo (Bertolucci, ndr), lo confesso. Non c’erano molti anni di differenza tra me e lui, e io all’epoca vedevo lì il cinema, quello industriale, ricco, in costume, con i grandi attori americani, guardavo i suoi carrelli, i dolly, la sua grande macchina da presa – la sua era una Mitchell – a confronto con la mia piccola 16 mm, che sembrava sparisse… quindi avevo un senso di frustrazione profondo, e in qualche modo… invidia, sì, invidia, invidia, invidia! Sana invidia dico, perché in realtà penso di aver fatto una cosa non brutta: è un film che è andato in tutto il mondo, in tutte le università e le scuole di cinema. Ed essendo stato anche abbinato ai dvd di Novecento, lo hanno visto ovunque, e ho finito anche per amarlo un po’. Anche se è nato ed è stato fatto con un’invidia profonda (ride)”.
Gianni Amelio sul set
Anche se le graduatorie non sono simpatiche, a un cinefilo con la C maiuscola non si può fare a meno di chiedere se ci sono tre o quattro film che hanno rappresentato un riferimento, un modello… un pensiero che ha accompagnato il suo fare cinema, la sua carriera.
Non ho difficoltà a dirli, li ho da una vita dentro il cuore: due film di Roberto Rossellini, Germania anno zero ed Europa 51. Poi Miracolo a Milano di Vittorio De Sica, e infine una cosa che sembra lontanissima da quel che ho fatto io, ma diciamo mi ha molto ‘nutrito’: Michelangelo Antonioni, soprattutto Il grido e L’avventura.
E oggi? Chi sono per lei i giovani registi italiani più talentuosi?
Per non offendere nessuno, perché ce ne sono parecchi di importanti, dico qualche mio ex allievo del Centro Sperimentale di Cinematografia, dove ho insegnato dagli anni ’80: in primis Laura Samani, ma anche tanti altri. Anche se riconosco che ci sono talenti bravissimi anche non provenienti da lì, come i fratelli D’Innocenzo o Carlo Sironi, oppure un mio ex allievo molto bravo che si chiama Bozzelli… Non ho detto Francesco Munzi solo perché non è esordiente, ma io con lui ho scritto un libro molto bello, che dovrebbe essere obbligatorio nelle scuole di cinema: si chiama L’ora di regia.
Restiamo sui giovani. Oltre che nelle scuole di cinema, lei la settima arte l’ha già tramandata in famiglia. Suo figlio Luan è già un affermato direttore della fotografia.
Luan è davvero bravissimo. Ha iniziato la gavetta a 18 anni, con grandi direttori della fotografia. Quella che ha fatto per questo mio ultimo film (Campo di Battaglia, ndr) non è una fotografia ‘bella’, ma è quella giusta: ha reso l’atmosfera con una semplicità totale. Non è una fotografia che si intromette e prevarica sul racconto, ma accompagna con discrezione le emozioni che io volevo dare. E non dimentico il suo lavoro su Il signore delle formiche, né quello su Hammamet, in cui lui ha debuttato: quella non sembra affatto la fotografia di un debuttante, ma di un direttore della fotografia molto esperto.
Vermiglio di Maura Delpero è in shortlist per l’Oscar. Ha avuto modo di vederlo?
Splendido. Meriterebbe di arrivare primo, di vincere l’Oscar. È un bellissimo film, c’è un sentimento forte: quando c’è un sentimento forte, tutto è giusto in un film.
Buon compleanno, Maestro.
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L’esordio al cinema con Totò, i film musicali che fanno genere negli anni ‘60, poi sul set anche con Pietro Germi, Luciano Salce e Duccio Tessari