Gianni, elogio della normalità


BERLINO – Pranzo di Ferragosto ai tedeschi era piaciuto molto. Ma non solo a loro, se è vero che l’opera prima di Gianni Di Gregorio è uscita in trenta territori. Un risultato più che lusinghiero per un piccolissimo film italiano, rivelato a Venezia dalla Settimana della critica, vincitore del Leone del futuro. Adesso con Gianni e le donne ci riprova. Al mercato berlinese è nel listino di Fandango Portobello e c’è già un notevole interesse attorno al film, venduto in Francia, Benelux e Svizzera, come ci spiega il produttore Angelo Barbagallo. Però è chiaro che la prova del fuoco è la proiezione con il pubblico, che in questa città e in questo festival, così cinefilo e informato, contano tantissimo.

 

“Sarà il momento più emozionante. Ancora non so come lo prenderanno i tedeschi, spero che li conquisti la fotografia solare e luminosa. A loro poi piace l’immagine dell’italiano indolente, buongustaio, capace di godersi la vita, un po’ passivo. Piace anche la nostra autoironia, la crudeltà che sappiamo esercitare su noi stessi. Più che mai indispensabile oggi come oggi, che il mondo intero ha i riflettori puntati su di noi e scherza sulle nostre vicende”.

Chiaro che, quando ha scritto il film, non poteva lontanamente immaginare le intricate vicende di questi ultimi mesi: “Adesso tutti pensano che gli italiani siano fissati con le donne e un po’ hanno anche ragione. Ma se cominciamo a ridere dei nostri difetti, come avveniva nella tradizione della commedia all’italiana, ci può fare solo un gran bene. Quello era un cinema sociale, feroce e sincero. Film come Tutti a casa di Comencini sono meravigliosi, la storia dell’uomo comune che prende coscienza, ogni volta che lo vedo mi metto a piangere sul finale. Oggi dobbiamo tornare a guardarci allo specchio”.

 

Gianni e le donne è uscito ieri nei cinema italiani con 01 Distribution. E’ andato molto bene nelle sale di città, meno in provincia e nei multiplex. “Piace di più alle donne, gli uomini a volte si irritano e ci tengono a prendere le distanze, vengono a dirmi che loro l’amante ce l’hanno”. Ma lui voleva proprio questo: ridere sull’età che avanza, una crisi che serpeggia dai 55 anni e a 60 esplode. “All’inizio sono solo segnali, poi diventa evidente. Con il successo di Pranzo di Ferragosto pensavo che le cose per me sarebbero cambiate. Adesso che sono famoso mi noteranno, mi dicevo… Invece niente. I miei coetanei si tingono i capelli e fanno i pesi in palestra, ma io sono timido e non nascondo la mia età, quindi sono diventato trasparente. Per fortuna ho l’autoironia che mi salva”.

 

Non aveva paura di un racconto troppo autoreferenziale? “Certo, infatti avevo il dubbio se chiamare il personaggio Gianni come me. Ma ho cercato di cogliere qualcosa di universale nella mia vicenda personale. In fondo mi ha dato sicurezza il fatto di raccontare una cosa che sentivo e che mi veniva fuori in modo spontaneo. Mi ha aiutato a superare la responsabilità di non deludere il pubblico aveva tanto amato Pranzo di Ferragosto“. Il successo è arrivato tardi per Di Gregorio. “Nel 2000 ho iniziato a lavorare con Matteo Garrone e insieme a lui mi sono buttato in mezzo alla strada con la macchina da presa. E’ stata la svolta. Lui ha prodotto la mia opera prima. Oggi mi sento l’energia di un ragazzino, sarei anche disposto a fare l’assistente di uno più giovane, di un esordiente. Oppure lo sceneggiatore”. Il cinema, dice è un lavoro collettivo. “Sono contento che qui con me, a Berlino, oltre agli attori, ci siano anche molti della troupe: il direttore della fotografia Gogò Bianchi, il montatore Marco Spoletini… Manca solo Valeria Bendoni, lei sarebbe anche venuta, ma con i suoi 95 anni non è facile spostarsi”.

 

Si torna al personaggio, un uomo qualsiasi. “Come me. Io infatti mi considero un uomo comune, normale, e mi piacciono i personaggi qualunque, il signore col cane che va a comprare il latte. Era la chiave giusta per parlare del passaggio da un’età all’altra, di quel momento di spaesamento”. E poi Roma, mostrata nelle contraddizioni di una città meravigliosa e strana, dove tutto è complicato, “dove a volte ci metti un giorno per andare da lì a lì”. Tra i suoi amori c’è Woody Allen, che ha raccontato benissimo New York. “Sono andato sulla panchina di Manhattan e mi sono reso subito conto che con un solo film mi aveva fatto capire la sua città”.

 

autore
12 Febbraio 2011

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