Flags of our Fathers: l’America in battaglia


Nel giorno in cui parte il grande omaggio a Robert Aldrich al Torino Film Festival, se ne va Jack Palance, l’attore “dal volto di cuoio” come lo soprannominò Billy Crystal quando gli consegnarono l’Oscar per Scappo dalla città. Proprio ad Aldrich questo duro dallo sguardo metallico doveva due tappe importanti della sua carriera: Il grande coltello (1955) e Prima linea dell’anno successivo, mentre la faccia di cuoio se l’era “conquistata” in battaglia, durante un brutto incidente aereo nel corso della seconda guerra mondiale a cui erano seguiti vari interventi di chirurgia plastica.

 

Un’altra battaglia, una delle più sanguinose della storia americana, è stata assoluta protagonista dell’inaugurazione del festival con Flags of our Fathers, che ha lasciato fuori dal Cinema Massimo decine di persone in fila da un paio d’ore tanto da convincere gli organizzatori a una proiezione supplementare. Il film, diretto da Clint Eastwood e prodotto da Steven Spielberg, negli Usa è terzo al box office mentre da noi è arrivato ieri nelle sale con la Warner e vedremo se appassionerà anche il pubblico italiano, non tanto per l’episodio che racconta (qualcuno ricorderà Iwo Jima, deserto di fuoco con John Wayne) quanto per i temi universali che affronta (l’assenza di scrupoli della propaganda, il fragile mito dell’eroismo). Scritto da Paul Haggis (Million Dollar Baby, Crash) e basato sul romanzo di James Bradley e Ron Powers, rievoca la conquista di Iwo Jima, un isolotto sulfureo del Pacifico che assunse importanza strategica decisiva nel conflitto col Giappone perché all’esercito nipponico serviva come base per lanciare il pre-allarme alla contraerea quando i bombardieri alleati facevano rotta verso Tokyo. Così il 16 gennaio del ’45 i marines scatenarono l’offensiva contro i 22.000 militari che presidiavano quella montagna di sabbia scura con un sistema di bunker e casematte assai difficile da espugnare: conquistarono Iwo Jima con un bilancio pesantissimo di morti e feriti e tuttavia diedero una spinta alla macchina bellica americana, ormai esausta, con un colpo di genio del marketing militare. La foto scattata da Joe Rosenthal in cui cinque marines e un marinaio innalzano la bandiera a stelle e strisce sulla cima del monte Suribachi divenne un simbolo di identità nazionale e di riscossa, oltre che un ottimo sistema per convincere gli americani a comprare le obbligazioni di guerra.

Con un andamento un po’ farraginoso ma con potenti momenti di cinema puro, Clint fa muovere il film tra questi due scenari: quello della battaglia, ripresa quasi in bianco e nero e con lo stile atrocemente realista a cui siamo abituati da Salvate il soldato Ryan in poi; e quello della tournée dei tre reduci, i sopravvissuti alla carneficina, che diventano quasi loro malgrado testimonial della raccolta di fondi. Va detto che Flags of our Fathers è solo il primo capitolo di un ambizioso e assai attuale affresco pacifista completato da Letters from Iwo Jima, dove il 76enne Dirty Harry dà voce e corpo al nemico concentrandosi sui tormenti del comandante, il generale Kuribayashi, un uomo che aveva studiato in Canada e che considerava la guerra un errore madornale ma che chiese ai suoi uomini di cadere onorevolmente uccidendo almeno 10 americani a testa per poi togliersi la vita.
 

autore
11 Novembre 2006

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